Oggi ho deciso di postare il primo racconto "racconto" che ho scritto nella mia vita. In realtà, avevo scritto altri raccontini prima di questo, un paio alle elementari e almeno uno alle medie, però non riesco a considerarli con serietà.
Questo racconto, che è stato scritto per un compito in classe di italiano quando ero in seconda superiore (tema libero: scrivete un racconto. Mi è sembrato una cosa meravigliosa, quando ci è stato assegnato. Me lo ricordo ancora come se fosse accaduto l'altro ieri, invece che quasi diciassette anni fa), è il mio primo vero racconto con atmosfere horror. E' assurdo, scritto male, incoerente, semplicistico come può essere un lavoro fatto da una quindicenne senza alcuna nozione di scrittura creativa, ma devo dire che nonostante tutto ha un alone onirico che conserva un certo fascino ancora adesso. E poi non posso non amarlo, è come un figlio per me, gli vorrò sempre bene. Con questo lavoro ho poi partecipato ad un concorso di prosa e poesia, che veniva fatto annualmente nel mio istituto, ed è arrivato primo nella prosa, per cui è stato incluso in una micro raccolta e sono finita sul Resto del Carlino con una bella foto della mia espressione estasiata. Insomma, ho avuto il mio primo (e penultimo) momento di gloria come scrittrice.
Ma ora basta, bando alle ciance. Eccolo qui.
DOMENICA
“Allora noi usciamo, Michelle. Mi raccomando, fate i bravi.”
“Certo, papà!” Gli sorrisi, grata per la dimostrazione di fiducia nei miei confronti. Rispose al mio sorriso, anche se con un’ombra di preoccupazione nello sguardo.
“E’ la prima volta che ci strappi il consenso di far venire i tuoi amici a mangiare qui a casa, mentre noi non ci siamo. Come tu ci sia riuscita non l’ho ancora capito, ma fai in modo che non ce ne dobbiamo pentire, ok?”
“Certo, papà!”, ripetei con un sorriso ingenuo stampato sul volto.
“Bene, spero che tu abbia ascoltato almeno una parola di quello che ti ho detto. Ci vediamo stasera.”
Probabilmente sarebbe rimasto molto volentieri ancora qualche momento, in modo da spiegarmi più dettagliatamente cosa volesse dire rimanere a casa da soli, con degli amici, per una giornata intera, ma la mamma, dal basso, stava suonando il clacson da circa cinque minuti, e c’era il rischio che qualche vicino, disturbato nella pace della domenica mattina, le tirasse dietro i soprammobili.
Gli lanciai un saluto mentre lui già correva giù per le scale, urlando “sto arrivando” alla mamma, che però continuava a suonare il clacson come se niente fosse.
Qualche secondo dopo, una violenta sgommata mi indicò che erano partiti.
Finalmente ero sola.
Mi precipitai in camera ed accesi lo stereo a volume massimo. Davano della musica bellissima, piena di ritmo.
Andai in sala da pranzo movendomi a tempo e cominciai a preparare la tavola, in modo da avere poi tutto il tempo per prepararmi.
Il pranzo si prospettava delizioso: spaghetti con le vongole, pollo arrosto con patate al forno, frutta mista e, per finire in bellezza, torta fatta in casa, degna dei migliori ristoranti. Ci avevo lavorato ore il giorno prima, in modo che fosse tutto perfetto. Mi sentivo una provetta padrona di casa.
Finiti i preparativi, avevo molto tempo ancora a disposizione, quindi mi immersi in un bel bagno bollente e profumato, dove mi rilassai per un’ora circa.
Infine, dopo essermi asciugata e vestita, uscii sulla terrazza: i miei amici sarebbero arrivati a momenti.
Chiusi gli occhi per un attimo ed inspirai una profonda boccata d’aria.
Una brusca frenata mi fece sussultare. Aprii gli occhi: erano arrivate due moto che trasportavano un ragazzo ed una ragazza ciascuna. I miei ospiti.
Parcheggiarono le moto in garage e poi, con la stessa delicatezza di quattro cuccioli di elefante, corsero su per le scale.
La prima a comparirmi davanti fu Alessandra, seguita da Luca, Simona e Nicola. Anche loro, come me, erano studenti, ragazzi normalissimi con i classici problemi dell’adolescenza.
Nei loro occhi, come nei miei, ancora si leggeva solo allegria e spensieratezza.
Dopo aver fatto gli onori di casa, portai in tavola gli spaghetti, mentre i ragazzi prendevano posto.
Il pranzo passò velocemente, tra pettegolezzi e risate: tutto era perfetto, proprio come lo avevo immaginato.
Il programma per il pomeriggio era di guardare un film mangiando popcorn. Lo facevamo spesso. Niente finora faceva presupporre ciò che sarebbe accaduto.
Notai quell’uomo mentre riponevo i piatti sporchi nel lavello.
Buttai un’occhiata fuori dalla finestra e lo vidi: era un uomo alto e magro, con capelli castani e ricci. Non ricordo come fosse vestito.
Si trovava nel cortile e voltava le spalle alla casa, fissando un punto oltre il campo incolto che si estendeva dietro casa mia. Non si muoveva. Quando lo vidi, un brivido mi percorse la schiena. Non sapevo perché, ma lo temevo.
In quel momento, squillò il telefono e io corsi a rispondere: mia madre. Le dissi subito cosa avevo visto.
“Un uomo?” fu la sua risposta “Gli hai chiesto cosa vuole?”
“No mamma… mi fa paura!”
“Va bene, ascolta: tu e i tuoi amici state in casa e non aprite a nessuno. Noi veniamo subito, stai tranquilla.”
“Grazie mamma. Ti voglio bene”
“Anch’io te ne voglio, tesoro!”
Dopo aver chiuso la telefonata, per un po’ cercai di dare retta al consiglio di mia madre. Non dissi niente agli altri. Poi, però, la curiosità ebbe la meglio. Andai alla finestra della cucina e bussai più volte.
Dapprima, l’uomo non si mosse, come se non potesse sentirmi. Improvvisamente, si voltò e mi guardò.
Aveva una faccia lunga e scura ed uno sproporzionato naso bianco.
Ma la cosa peggiore erano gli occhi. Non riuscivo a capire come fossero fatti, sembravano in un continuo turbinio. Provai un senso di orrore e fuggii.
Tornai in sala da pranzo con gli altri e, terrorizzata, raccontai ciò che avevo visto.
I ragazzi mi dissero che sicuramente non c’era niente di cui aver paura, di certo avevo preso un abbaglio, probabilmente si trattava semplicemente di un contadino, ma le ragazze invece si spaventarono dopo aver ascoltato il mio racconto.
Dopo venti minuti circa, decisi di tornare in cucina per vedere se era ancora lì. C’era.
Stavolta però non feci nulla, i miei genitori sarebbero arrivati a breve.
Lui era ancora immobile e guardava il campo. In quel momento, arrivarono i miei genitori.
Scesero dalla macchina e si avvicinarono all’uomo, che si voltò lentamente verso di loro.
Corsi verso la porta d’entrata, volevo raggiungerli.
Mentre stavo aprendo la porta, un urlo acuto di paura risuonò nell’aria. Mi bloccai sull’uscio con il sangue gelato nelle vene.
Guardai i miei amici. Mi stavano fissando terrorizzati.
Con il cuore in gola, attesi altri rumori, un altro urlo… qualcosa, insomma, ma niente. Intorno a me regnava il silenzio totale.
Mi decisi ad andare a vedere cosa fosse successo, ma non riuscivo a muovermi. I miei amici restavano seduti e mi fissavano. Sembravano statue di cera.
Finalmente mi convinsi ed andai alla finestra della cucina.
Guardai fuori e urlai. Urlai a lungo di dolore e disperazione.
L’uomo con i capelli ricci era là, nel cortile, in piedi, ed aveva le mani sporche di sangue… ma non solo le mani: ovunque era stato spruzzato con il sangue. Aveva un lungo coltello nella mano sinistra.
Ai suoi piedi c’erano i corpi dei miei genitori. Le teste, però, erano saltate a qualche metro di distanza.
Il volto di mia madre si vedeva molto bene: era ancora contratto in una espressione di folle paura. Forse fu uccisa per ultima.
Quando urlai, l’uomo si voltò verso di me e mi sorrise. A quel punto, capii che per me era finita: ora sarebbe stato il mio turno.
Per un attimo solamente, la vista mi si annebbiò e mi sentii sprofondare in uno stato di semi incoscienza. Dovetti reggermi alla maniglia del frigorifero per non finire a terra.
Il cervello sembrava dovesse scoppiarmi da un momento all’altro, tutti gli arti mi si erano irrigiditi… credevo di impazzire, ma tutto tornò alla normalità d’un colpo quando mi accorsi che lui aveva cominciato a camminare. Non potevo, non dovevo lasciarmi andare. Non pensai più ai miei genitori, ma a me ed ai miei amici.
Se avessi ceduto, per noi sarebbe stata la fine. Senza esitare, corsi in sala da pranzo.
Simona ed Alessandra stavano piangendo per la paura, Luca e Nicola le stringevano fra le braccia senza capire cosa stesse succedendo, pallidi e tesi.
Non ero per niente sicura che potessero resistere, se avessero saputo quello che era accaduto, ma non potevo fare altro che dirglielo, non avevo altra scelta.
“Li ha… uccisi… ha ucciso i miei genitori e adesso sta venendo qui!”
Vidi le facce dei quattro contrarsi. Parlai di nuovo prima che avessero il tempo di realizzare fino in fondo ciò che avevo detto.
“Non possiamo farci prendere dal panico, non possiamo permettercelo… sta venendo a prendere anche noi e dobbiamo difenderci”
Rimasi stupita di quello che successe: le ragazze smisero di piangere e, in silenzio, vennero da me, seguite dai ragazzi.
Con voci tremanti e stridule, mi chiesero cosa potevamo fare.
“Dobbiamo usare le uniche armi che abbiamo a disposizione: i coltelli”
Lanciai un’occhiata alla porta d’ingresso e mi ricordai improvvisamente che c’erano le chiavi sulla toppa. Per quell’assassino sarebbe stato come un’invito a pranzo entrare in casa.
Dissi agli altri di cercare in cucina i coltelli più grandi di cui disponevo, mentre io avrei staccato le chiavi.
Aprii la porta e mi venne voglia di piangere. Qualche tempo prima, mio padre aveva avuto la bella idea, a suo parere, di studiare una chiusura di sicurezza per la porta. Questa consisteva in un pezzo di ferro che fuoriusciva dal legno della porta, passava attraverso il portachiavi e si avvitava ad un altro che si piantava dalla parte opposta.
Mio padre sosteneva che in questo modo i ladri avrebbero avuto difficoltà a rubare le chiavi che venivano dimenticate sulle porte. Era infatti un po’ di tempo che, nella nostra zona, i ladri prendevano le chiavi che rimanevano sulle toppe per poi rapinare da cima a fondo le case non appena lasciate incustodite. L’idea di mio padre forse era anche buona, ma il sistema applicato lasciava di certo a desiderare. Non glielo dissi mai, ma a mio parere quel “coso” non serviva proprio a nulla.
Tutto sommato, comunque, io non ero mai riuscita a sciogliere l’intreccio dei due pezzi di ferro, e prendere dunque le chiavi.
Fu per questo motivo che mi vennero le lacrime agli occhi. Se non c’ero mai riuscita prima, ero dunque spacciata?
Decisi di contare sulla forza della disperazione. Tentati di sollevare la mano destra e disfare l’intreccio, ma non voleva rispondere ai miei comandi. Semplicemente, non riuscivo a muoverla e mi faceva malissimo. Reumatismi, diceva mia madre, ma quello non mi sembrava proprio il momento più opportuno per un attacco reumatico.
Provai ad agire sulla serratura con la mano sinistra, con scarsi risultati.
Sentii un miagolio e mi voltai: fuori dalla porta a vetri c’era il mio gatto nero che voleva entrare. Stavo per aprirgli, quando sentii dei passi sulla ghiaia, sotto la scala: stava arrivando.
In preda al panico, iniziai a prendere a calci il portachiavi. Quando udii il primo passo per la scala, riuscii a romperlo. Le chiadi caddero a terra rumorosamente.
Le calciai dentro casa e chiusi la porta sbattendola.
Rimasi un momento in ascolto, ma non udii altri passi sulla scala.
“Abbiamo trovato solo questi quattro” disse una voce roca alle mie spalle, facendomi sussultare. Mi voltai di scatto. Era Alessandra, pallida e con il viso rigato di lacrime, che reggeva in mano quattro aguzzi coltelloni da carne.
Con mani tremanti, ne presi uno per me, uno lo lasciai a lei, e gli altri li passai a Simona e Nicola.
“E io… cosa faccio?”
Luca era davanti a me, disarmato, e mi guardava con occhi impauriti e vuoti.
Sulle prime non seppi cosa dirgli, poi mi venne un’idea e corsi in bagno.
Un momento dopo tornai da lui “Tieni” dissi, e gli porsi un paio di affilatissime forbici da barbiere.
“Mi dispiace, io… Sono stata io a coinvolgervi in tutto questo, e adesso non so fare altro che darti delle forbici…”
Gli porsi il mio coltello, ma Luca scosse la testa dicendo “Penso che a te servirà di più. Credo sia solo tu quella che Lui vuole, adesso…”
“Ma perché…” iniziai, quando all’improvviso i passi sulla scala ricominciarono, più veloci, e ci zittimmo tutti.
Ci nascondemmo a fianco della finestra della sala da pranzo, che dava sulla scala.
Sentii dentro di me che l’uomo era oltre quella finestra, e guardava dentro. Ne ero certa, e anche gli altri lo sapevano.
Non respiravamo.
Pensai al mio gatto, che era ancora là fuori, ed ai miei genitori…
Chiusi gli occhi per un momento e strinsi forte l’impugnatura verde del mio coltello.
Quando riaprii gli occhi, non capivo dove mi trovavo. Poi riuscii a realizzare: ero in camera mia, nel mio letto, in un bagno di sudore.
Era stato tutto solo un brutto incubo!
Ma come era possibile? Era tutto così realistico… ne fui comunque sollevata e felice.
Mi alzai, e stavo andando a fare colazione, quando guardai sul mio comodino. C’era un grosso coltello sporco di sangue, con l’impugnatura di colore verde.
Svenni.
“Certo, papà!” Gli sorrisi, grata per la dimostrazione di fiducia nei miei confronti. Rispose al mio sorriso, anche se con un’ombra di preoccupazione nello sguardo.
“E’ la prima volta che ci strappi il consenso di far venire i tuoi amici a mangiare qui a casa, mentre noi non ci siamo. Come tu ci sia riuscita non l’ho ancora capito, ma fai in modo che non ce ne dobbiamo pentire, ok?”
“Certo, papà!”, ripetei con un sorriso ingenuo stampato sul volto.
“Bene, spero che tu abbia ascoltato almeno una parola di quello che ti ho detto. Ci vediamo stasera.”
Probabilmente sarebbe rimasto molto volentieri ancora qualche momento, in modo da spiegarmi più dettagliatamente cosa volesse dire rimanere a casa da soli, con degli amici, per una giornata intera, ma la mamma, dal basso, stava suonando il clacson da circa cinque minuti, e c’era il rischio che qualche vicino, disturbato nella pace della domenica mattina, le tirasse dietro i soprammobili.
Gli lanciai un saluto mentre lui già correva giù per le scale, urlando “sto arrivando” alla mamma, che però continuava a suonare il clacson come se niente fosse.
Qualche secondo dopo, una violenta sgommata mi indicò che erano partiti.
Finalmente ero sola.
Mi precipitai in camera ed accesi lo stereo a volume massimo. Davano della musica bellissima, piena di ritmo.
Andai in sala da pranzo movendomi a tempo e cominciai a preparare la tavola, in modo da avere poi tutto il tempo per prepararmi.
Il pranzo si prospettava delizioso: spaghetti con le vongole, pollo arrosto con patate al forno, frutta mista e, per finire in bellezza, torta fatta in casa, degna dei migliori ristoranti. Ci avevo lavorato ore il giorno prima, in modo che fosse tutto perfetto. Mi sentivo una provetta padrona di casa.
Finiti i preparativi, avevo molto tempo ancora a disposizione, quindi mi immersi in un bel bagno bollente e profumato, dove mi rilassai per un’ora circa.
Infine, dopo essermi asciugata e vestita, uscii sulla terrazza: i miei amici sarebbero arrivati a momenti.
Chiusi gli occhi per un attimo ed inspirai una profonda boccata d’aria.
Una brusca frenata mi fece sussultare. Aprii gli occhi: erano arrivate due moto che trasportavano un ragazzo ed una ragazza ciascuna. I miei ospiti.
Parcheggiarono le moto in garage e poi, con la stessa delicatezza di quattro cuccioli di elefante, corsero su per le scale.
La prima a comparirmi davanti fu Alessandra, seguita da Luca, Simona e Nicola. Anche loro, come me, erano studenti, ragazzi normalissimi con i classici problemi dell’adolescenza.
Nei loro occhi, come nei miei, ancora si leggeva solo allegria e spensieratezza.
Dopo aver fatto gli onori di casa, portai in tavola gli spaghetti, mentre i ragazzi prendevano posto.
Il pranzo passò velocemente, tra pettegolezzi e risate: tutto era perfetto, proprio come lo avevo immaginato.
Il programma per il pomeriggio era di guardare un film mangiando popcorn. Lo facevamo spesso. Niente finora faceva presupporre ciò che sarebbe accaduto.
Notai quell’uomo mentre riponevo i piatti sporchi nel lavello.
Buttai un’occhiata fuori dalla finestra e lo vidi: era un uomo alto e magro, con capelli castani e ricci. Non ricordo come fosse vestito.
Si trovava nel cortile e voltava le spalle alla casa, fissando un punto oltre il campo incolto che si estendeva dietro casa mia. Non si muoveva. Quando lo vidi, un brivido mi percorse la schiena. Non sapevo perché, ma lo temevo.
In quel momento, squillò il telefono e io corsi a rispondere: mia madre. Le dissi subito cosa avevo visto.
“Un uomo?” fu la sua risposta “Gli hai chiesto cosa vuole?”
“No mamma… mi fa paura!”
“Va bene, ascolta: tu e i tuoi amici state in casa e non aprite a nessuno. Noi veniamo subito, stai tranquilla.”
“Grazie mamma. Ti voglio bene”
“Anch’io te ne voglio, tesoro!”
Dopo aver chiuso la telefonata, per un po’ cercai di dare retta al consiglio di mia madre. Non dissi niente agli altri. Poi, però, la curiosità ebbe la meglio. Andai alla finestra della cucina e bussai più volte.
Dapprima, l’uomo non si mosse, come se non potesse sentirmi. Improvvisamente, si voltò e mi guardò.
Aveva una faccia lunga e scura ed uno sproporzionato naso bianco.
Ma la cosa peggiore erano gli occhi. Non riuscivo a capire come fossero fatti, sembravano in un continuo turbinio. Provai un senso di orrore e fuggii.
Tornai in sala da pranzo con gli altri e, terrorizzata, raccontai ciò che avevo visto.
I ragazzi mi dissero che sicuramente non c’era niente di cui aver paura, di certo avevo preso un abbaglio, probabilmente si trattava semplicemente di un contadino, ma le ragazze invece si spaventarono dopo aver ascoltato il mio racconto.
Dopo venti minuti circa, decisi di tornare in cucina per vedere se era ancora lì. C’era.
Stavolta però non feci nulla, i miei genitori sarebbero arrivati a breve.
Lui era ancora immobile e guardava il campo. In quel momento, arrivarono i miei genitori.
Scesero dalla macchina e si avvicinarono all’uomo, che si voltò lentamente verso di loro.
Corsi verso la porta d’entrata, volevo raggiungerli.
Mentre stavo aprendo la porta, un urlo acuto di paura risuonò nell’aria. Mi bloccai sull’uscio con il sangue gelato nelle vene.
Guardai i miei amici. Mi stavano fissando terrorizzati.
Con il cuore in gola, attesi altri rumori, un altro urlo… qualcosa, insomma, ma niente. Intorno a me regnava il silenzio totale.
Mi decisi ad andare a vedere cosa fosse successo, ma non riuscivo a muovermi. I miei amici restavano seduti e mi fissavano. Sembravano statue di cera.
Finalmente mi convinsi ed andai alla finestra della cucina.
Guardai fuori e urlai. Urlai a lungo di dolore e disperazione.
L’uomo con i capelli ricci era là, nel cortile, in piedi, ed aveva le mani sporche di sangue… ma non solo le mani: ovunque era stato spruzzato con il sangue. Aveva un lungo coltello nella mano sinistra.
Ai suoi piedi c’erano i corpi dei miei genitori. Le teste, però, erano saltate a qualche metro di distanza.
Il volto di mia madre si vedeva molto bene: era ancora contratto in una espressione di folle paura. Forse fu uccisa per ultima.
Quando urlai, l’uomo si voltò verso di me e mi sorrise. A quel punto, capii che per me era finita: ora sarebbe stato il mio turno.
Per un attimo solamente, la vista mi si annebbiò e mi sentii sprofondare in uno stato di semi incoscienza. Dovetti reggermi alla maniglia del frigorifero per non finire a terra.
Il cervello sembrava dovesse scoppiarmi da un momento all’altro, tutti gli arti mi si erano irrigiditi… credevo di impazzire, ma tutto tornò alla normalità d’un colpo quando mi accorsi che lui aveva cominciato a camminare. Non potevo, non dovevo lasciarmi andare. Non pensai più ai miei genitori, ma a me ed ai miei amici.
Se avessi ceduto, per noi sarebbe stata la fine. Senza esitare, corsi in sala da pranzo.
Simona ed Alessandra stavano piangendo per la paura, Luca e Nicola le stringevano fra le braccia senza capire cosa stesse succedendo, pallidi e tesi.
Non ero per niente sicura che potessero resistere, se avessero saputo quello che era accaduto, ma non potevo fare altro che dirglielo, non avevo altra scelta.
“Li ha… uccisi… ha ucciso i miei genitori e adesso sta venendo qui!”
Vidi le facce dei quattro contrarsi. Parlai di nuovo prima che avessero il tempo di realizzare fino in fondo ciò che avevo detto.
“Non possiamo farci prendere dal panico, non possiamo permettercelo… sta venendo a prendere anche noi e dobbiamo difenderci”
Rimasi stupita di quello che successe: le ragazze smisero di piangere e, in silenzio, vennero da me, seguite dai ragazzi.
Con voci tremanti e stridule, mi chiesero cosa potevamo fare.
“Dobbiamo usare le uniche armi che abbiamo a disposizione: i coltelli”
Lanciai un’occhiata alla porta d’ingresso e mi ricordai improvvisamente che c’erano le chiavi sulla toppa. Per quell’assassino sarebbe stato come un’invito a pranzo entrare in casa.
Dissi agli altri di cercare in cucina i coltelli più grandi di cui disponevo, mentre io avrei staccato le chiavi.
Aprii la porta e mi venne voglia di piangere. Qualche tempo prima, mio padre aveva avuto la bella idea, a suo parere, di studiare una chiusura di sicurezza per la porta. Questa consisteva in un pezzo di ferro che fuoriusciva dal legno della porta, passava attraverso il portachiavi e si avvitava ad un altro che si piantava dalla parte opposta.
Mio padre sosteneva che in questo modo i ladri avrebbero avuto difficoltà a rubare le chiavi che venivano dimenticate sulle porte. Era infatti un po’ di tempo che, nella nostra zona, i ladri prendevano le chiavi che rimanevano sulle toppe per poi rapinare da cima a fondo le case non appena lasciate incustodite. L’idea di mio padre forse era anche buona, ma il sistema applicato lasciava di certo a desiderare. Non glielo dissi mai, ma a mio parere quel “coso” non serviva proprio a nulla.
Tutto sommato, comunque, io non ero mai riuscita a sciogliere l’intreccio dei due pezzi di ferro, e prendere dunque le chiavi.
Fu per questo motivo che mi vennero le lacrime agli occhi. Se non c’ero mai riuscita prima, ero dunque spacciata?
Decisi di contare sulla forza della disperazione. Tentati di sollevare la mano destra e disfare l’intreccio, ma non voleva rispondere ai miei comandi. Semplicemente, non riuscivo a muoverla e mi faceva malissimo. Reumatismi, diceva mia madre, ma quello non mi sembrava proprio il momento più opportuno per un attacco reumatico.
Provai ad agire sulla serratura con la mano sinistra, con scarsi risultati.
Sentii un miagolio e mi voltai: fuori dalla porta a vetri c’era il mio gatto nero che voleva entrare. Stavo per aprirgli, quando sentii dei passi sulla ghiaia, sotto la scala: stava arrivando.
In preda al panico, iniziai a prendere a calci il portachiavi. Quando udii il primo passo per la scala, riuscii a romperlo. Le chiadi caddero a terra rumorosamente.
Le calciai dentro casa e chiusi la porta sbattendola.
Rimasi un momento in ascolto, ma non udii altri passi sulla scala.
“Abbiamo trovato solo questi quattro” disse una voce roca alle mie spalle, facendomi sussultare. Mi voltai di scatto. Era Alessandra, pallida e con il viso rigato di lacrime, che reggeva in mano quattro aguzzi coltelloni da carne.
Con mani tremanti, ne presi uno per me, uno lo lasciai a lei, e gli altri li passai a Simona e Nicola.
“E io… cosa faccio?”
Luca era davanti a me, disarmato, e mi guardava con occhi impauriti e vuoti.
Sulle prime non seppi cosa dirgli, poi mi venne un’idea e corsi in bagno.
Un momento dopo tornai da lui “Tieni” dissi, e gli porsi un paio di affilatissime forbici da barbiere.
“Mi dispiace, io… Sono stata io a coinvolgervi in tutto questo, e adesso non so fare altro che darti delle forbici…”
Gli porsi il mio coltello, ma Luca scosse la testa dicendo “Penso che a te servirà di più. Credo sia solo tu quella che Lui vuole, adesso…”
“Ma perché…” iniziai, quando all’improvviso i passi sulla scala ricominciarono, più veloci, e ci zittimmo tutti.
Ci nascondemmo a fianco della finestra della sala da pranzo, che dava sulla scala.
Sentii dentro di me che l’uomo era oltre quella finestra, e guardava dentro. Ne ero certa, e anche gli altri lo sapevano.
Non respiravamo.
Pensai al mio gatto, che era ancora là fuori, ed ai miei genitori…
Chiusi gli occhi per un momento e strinsi forte l’impugnatura verde del mio coltello.
Quando riaprii gli occhi, non capivo dove mi trovavo. Poi riuscii a realizzare: ero in camera mia, nel mio letto, in un bagno di sudore.
Era stato tutto solo un brutto incubo!
Ma come era possibile? Era tutto così realistico… ne fui comunque sollevata e felice.
Mi alzai, e stavo andando a fare colazione, quando guardai sul mio comodino. C’era un grosso coltello sporco di sangue, con l’impugnatura di colore verde.
Svenni.