È l'atto di leggere in sé che mi manca, la
possibilità di ritirarmi sempre più dal mondo fino a che non ho trovato un po'
di spazio, un po' d'aria che non sia viziata, che non sia già stata respirata
migliaia di volte dalla mia famiglia. Il monolocale di Janet sembrava enorme
quando ci abitavo, enorme e tranquillo, ma questo libro è ancora più grande. E
quando lo avrò finito ne comincerò un altro, e quello forse sarà ancora più
grande, e poi un altro ancora, e allora la mia casa si allargherà fino a
diventare una magione, piena di stanze dove loro non potranno trovarmi.
Hornby avrebbe potuto forse fare
un lavoro migliore con questo libro, che credo ad un certo punto si perda un
po', ma tutto sommato devo dire che mi è piaciuto. Oddio, forse
"piaciuto" è una parola che non si accosta poi troppo bene ad un romanzo
che parla di vite alla deriva, vuoto interiore, mancanza di speranza e nessun lieto
fine ("ma proprio nel momento
sbagliato lancio un'occhiata al cielo notturno dietro David, e vedo che là
fuori non c'è nulla" direi che è una conclusione che lascia un po'
con l'amaro in bocca, oltre che con un senso di incompletezza...). Non mi sono
nemmeno affezionata ai personaggi, anzi li trovo tutti piuttosto odiosi, ma
forse è proprio questo lo scopo dell'autore, ossia farci scontrare con la cruda
realtà di un mondo fatto di vuotezza ed ipocrisia, un mondo in cui è più
probabile che i vicini di casa accettino serenamente una vita di eccessi,
droghe e sperperi piuttosto che la proposta di fare qualcosa di attivo e costruttivo
per i meno fortunati. Un sistema sociale che comprende e invidia i Jordan
Belfort, mentre
compatisce le Madri Teresa. Queste considerazioni, che nel
romanzo vengono fatte da una Katie seriamente preoccupata e imbarazzata dalla
prospettiva che il marito David voglia proporre ai vicini di ospitare nelle
loro case mezze vuote dei ragazzi di strada, sono state un po' una doccia
fredda, mi hanno dato molto da pensare. Perché è fin troppo vero, facciamo
donazioni più o meno consistenti, diamo l'elemosina (solo a volte e solo a chi
ci ispira particolare tristezza), magari regaliamo anche qualche ora al
volontariato, ma se ci venisse chiesto
di fare di più, di fare qualcosa di vero per degli sconosciuti, quale sarebbe
la nostra reazione? Se uno dei nostri vicini - di cui probabilmente conosciamo la faccia, sappiamo che ha un cane che
abbaia troppo presto la mattina o dei figli che giocano a pallone nel cortile,
e nient'altro - venisse a pregarci di fare qualcosa di concreto come
ospitare nella nostra stanza degli ospiti perennemente vuota una ragazzina di
14 anni per toglierla definitivamente dalla strada e darle un futuro, come
reagiremmo? E se adesso state pensando "beh, sarebbe un bel cambiamento di vita, ma accetterei",
allora vi chiedo: perché non c'è una ragazzina di 14 anni (o un ragazzino di
16, o un uomo adulto?) nella vostra
camera degli ospiti in questo preciso momento? Cosa ci sta impedendo di
andare là fuori e cambiare il mondo in meglio? Ma un'altra domanda molto
importante è: è davvero giusto sentirsi in colpa perché invece non lo si sta
facendo? La nostra cultura, religione, educazione, morale, etc ci grida "certo!! DEVI sentirti in colpa se non aiuti
i meno fortunati. Guardati! Butti via del cibo perfettamente commestibile solo
perché è ammaccato o scaduto da un giorno, quando all'angolo c'è un barbone che
non ha niente da mettere sotto i denti", è la voce della coscienza,
quella che ha delle ragioni talmente forti che non riusciamo nemmeno a
controbattere seriamente (per questo la soffochiamo spesso con un cuscino).
Preferiamo non pensarci troppo, dare il nostro 5 per mille a qualcuno che ci
pensi al posto nostro , a quelle persone che si sporcano le mani in prima
persona, mentre noi siamo liberi di guardare cooking show e repliche di serie
tv, uscire a cena, andare ai concerti o
alle partite o in vacanza, o stare qui a scrivere una recensione di un libro che
si è trasformata in una riflessione sulla morale, anzi, una riflessione
sull'"essere buoni", il
dilemma che tortura Katie per tutta la lunghezza del romanzo.
Secondo me, un libro che ti fa
riflettere anche solo per un po' su quanto la tua vita sia impregnata di
ipocrisia (sì, anch'io mi considero una persona buona perché non mangio gli
animali, dono una cifra mensile a tre associazioni umanitarie, regalo i miei
vestiti smessi e il vecchio pc alla caritas e quando posso faccio un po' di
elemosina ai vù cumprà nei parcheggi,
ma la mia camera degli ospiti è attualmente vuota e inutilizzata e a volte mi capita
di buttare cibo non proprio andato del tutto, e di sicuro ho molto di più di
quello che mi serve per vivere, anche se non lavoro e la casa è ancora da
pagare) è un buon libro.
Ci sono altre riflessioni legate
alla lettura di questo romanzo, riflessioni sul rimanere comunque legati ad una
persona anche se questa ci ha spento qualsiasi scintilla interiore, riflessioni
sull'utilizzo della cultura (libri e musica, nello specifico) come modo per sopportare
una realtà opprimente, riflessioni sul cinismo dilagante e sull'educazione dei
figli, ma non voglio dilungarmi ulteriormente.
"Come diventare buoni"
in sostanza, non è certamente la cosa migliore che ha scritto il grande Nick,
ma si legge piacevolmente ed è intriso della sua solita sagacia ed ironia, ma
anche di tanta amarezza. Non lo consiglio a chi si vuole avvicinare a questo
autore per la prima volta (molto meglio "Alta Fedeltà" o "Non
buttiamoci giù") perché può risultare a tratti noioso e, come ho
detto, i personaggi non suscitano proprio il massimo della simpatia. Non ne
hanno mai tratto un film, ed è un peccato perché credo ne verrebbe un buon
film, forse molto più divertente del romanzo in sé.
L'impressione che ho ora è che essere umani sia in sé
già abbastanza drammatico; vale per chiunque: non c'è bisogno di essere un
eroinomane o un poeta da reading per vivere situazioni estreme. Basta amare
qualcuno.
"Siamo medici generici, Katie. Esercitiamo da
sette anni. Sono sicura che il mondo è pieno di gente capace di lavorare meglio
di noi, ma non possiamo farlo sapere ai pazienti, se no è finita."
Mi ero abituata al suo cinismo, e in ogni caso adesso
siamo tutti cinici, anche se soltanto stasera me ne rendo conto fino in fondo.
Il cinismo è il nostro linguaggio comune, l'esperanto che si diffonde davvero
e, sebbene non lo parli benissimo - mi piacciono troppe cose e invidio troppo
poche persone - lo conosco quanto basta per usarlo. E in ogni caso non è
possibile evitare del tutto il cinismo e la derisione. Si parla, non so, delle
elezioni del sindaco di Londra, o di Posh e Becks e Brooklyn, e sei obbligato a
essere acido, anche solo per dimostrare di essere un individuo metropolitano
perfettamente funzionante e riflessivo. (...) Nel nostro quartiere, gente come
Ginger Spice, Bill Clinton e Jeffrey Archer sono considerati unanimemente al di
là del bene e del male, e se qualcuno comincia a prendere le loro difese allora
quell'unanimità manca, ed è l'anarchia. È possibile voler divorziare da un uomo
semplicemente perché non vuole essere duro con Ginger Spice? Temo sia
possibile.
A chi di voi sceglie i suoi divertimenti in base alla
facilità di parcheggio, raccomando vivamente le funzioni domenicali anglicane.
Se la funzione è alle dieci, potete arrivare alle dieci meno cinque ed essere
fuori due minuti dopo le undici.
Chiunque abbia dovuto aspettare un'ora nel parcheggio
di Wembley dopo un concerto delle Spice Girls potrebbe trovare la cosa
attraente.
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