Un Italiano in America, di Beppe Severgnini




 Questo libro è il frutto di una lunga inesperienza. È il racconto di un anno trascorso negli Stati Uniti, un paese nel quale, mi sono reso conto, si arriva assolutamente impreparati. Quello che avevo imparato in molti viaggi precedenti non è servito a niente, e il bombardamento di «notizie americane» sull'Europa funziona come un riflettore puntato negli occhi: la luce è molta, ma si vede poco. L'America normale — quella che s'incontra uscendo dagli aeroporti, a meno d'essere particolarmente sfortunati — è uno dei segreti meglio custoditi del mondo.



Leggere Severgini è sempre piacevole, in questo periodo poi ho molta voglia di USA (mentre scrivo sto mangiando pancakes con sciroppo d'acero e bevendo caffè americano - quello vero, fatto nel broccone - in un simil-diner italiano, tanto per dire), per cui leggere questo libro mi ha da una parte divertita, dall'altra mi ha messo addosso una voglia ancora più grande di partire ed esplorare quel mondo americano, così famigliare ma al tempo stesso così lontano (ho fatto anche la rima).

In realtà, il libro di Severgnini mi ha fatta più che altro sorridere in senso affettuoso, perché è stato scritto e vissuto 20 anni fa, e il mondo (e anche l'Italia) è cambiato molto da allora, soprattutto grazie a quel world wide web che lui guarda un po' con timore reverenziale (uno dei passi più belli è quando dice

Tutti Mi Danno Del Bastardo, di Nick Hornby





Il motivo per cui Charlie non si sentiva offeso come avrebbe potuto era che non aveva la coscienza pulita, non del tutto: c'erano l'infedeltà, l'alcol e la colpevole estraneità alla vita famigliare. Farsi insultare su una testata nazionale senza cercare di controbattere era di fatto un ottimo modo per ricominciare da zero. Sperava che, alla fine di quella storia, il suo scoperto spirituale sarebbe stato ripianato e lui avrebbe potuto tornare a usare il bancomat.


È un racconto intelligente, ben scritto, che contiene se non un monito, perlomeno una fondatissima preoccupazione sul ruolo che hanno i media e i social nella nostra vita, su quanto abbiamo imparato a farci liberamente i fatti degli altri e con che facilita esprimiamo giudizi pur non avendo tutte le informazioni che ci servirebbero per farlo. Il protagonista del racconto si separa dalla moglie, e questa ne approfitta per farsi assegnare una rubrica settimanale intitolata BASTARDO! in cui, letteralmente, sputtana

Colazione da Tiffany, di Truman Capote





Signorina Holiday Golightly, in transito.



Capita a volte di innamorarsi da un libro fin dalle prime righe. Può capitare perché il linguaggio ti rapisce, o perché un particolare ti colpisce al cuore, oppure una frase buttata lì ti fa scattare qualcosa nel cervello e nell'anima.
Era un po' che non mi accadeva, ma Colazione da Tiffany ce l'ha fatta, mi ha conquistata da subito, fin dalla prima pagina.
La prima cosa che mi ha colpita sono state le descrizioni, soprattutto quelle degli ambienti: in poche parole ben scelte, ci si fa un'immagine mentale chiarissima e anche un filo poetica, e credo che questo sia prova di grandi capacità narrative. Altra cosa, i dialoghi: veloci, privi di inutili voli pindarici, ma non per questo poco informativi.

L'incipit è bellissimo, a mio parere, e forse

Shakespeare Scriveva per Soldi, di Nick Hornby




 "Uno che non devia mai da un elenco prestabilito di libri è già intellettualmente morto"


Questa raccolta è il seguito di "Una vita da lettore" (di cui ho parlato in QUESTO post, quasi esattamente tre anni fa), e contiene gli articoli di Hornby per la rivista Believers tra agosto 2006 (l'altro libro si concludeva con il pezzo di giugno 2006) e settembre 2008.

Come mi era accaduto già con la precedente raccolta, sono rimasta affascinata dalle recensioni di Hornby e mi sono segnata diversi titoli da cercare e aggiungere alle mie liste di letture per i prossimi mesi (anni? Ho già una lista pressocché infinita...), tra i quali "Cronache

Una cosa divertente che non farò mai più, di David Foster Wallace





"Ho visto spiagge di zucchero e un'acqua di un blu limpidissimo. Ho visto in completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l'olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato "Mister" in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l'Electric Slide."


Ho scoperto con questo libro uno scrittore geniale, sagace, divertente ma capace di osservazioni pungenti.
Un libriccino come questo, una esilarante storiella di un viaggio in crociera, riesce ad essere una critica acuta e diretta alla società odierna, al lusso sfacciato, allo spreco, allo sfruttamento, ma soprattutto alla stupidità e pochezza umana.

Subito dopo aver finito il libro, sono andata a cercarmi informazioni su David Foster Wallace in rete, e ho così appreso che purtroppo è morto suicida, pare a causa

Una Banda di Idioti, di John Kennedy Toole




"(...) mi accompagno soltanto con miei pari o nessun altro,
e siccome non ho pari, sono sempre solo."


"Quando viene al mondo un genio autentico, lo si può riconoscere dal fatto che gli idioti sono tutti coalizzati contro di lui." Nelle parole di Jonathan Swift troviamo la base del romanzo.
Avete presente quelle storie in cui c'è un eroe, di solito bello o comunque piacevole, dai nobili valori e forti aspirazioni - che siano una carriera, l'amore di una donna, l'affermazione - che, sostenuto da qualche fedele amico e dal lettore appassionato, avanza faticosamente attraverso varie vicissitudini per poi trionfare alla fine, moralmente più ricco e interiormente cresciuto?
Ecco, scordatevelo: nel libro di John Kennedy Toole non succede niente di tutto questo.

Ignatius J. Reilly è un personaggio odioso