Dick & Jane - secondo pezzo

Nel post precedente il primo pezzetto. Oltre a questo ne ho anche un'altro, lo posterò stasera magari :)


Dick strizzò gli occhi. Non voglio pensare a quello adesso. Non voglio, non ce la faccio. Ti prego, lasciami in pace.
Ma era come sperare di trattenere un fiume in piena con una diga di rami essiccati. Una volta che l’acqua trova una fessura, in pochi istanti arriva a travolgerti.
Per la milionesima volta (o forse miliardesima, contando gli incubi che ancora lo perseguitavano quasi ogni notte), si trovò costretto ad assistere alla proiezione mentale del suo piccolo film dell’orrore personale.
Rivide il lettino intriso di sangue, risentì le sue urla mentre si aggirava come un folle di stanza in stanza alla ricerca dei suoi figli e di sua moglie, certo che, mentre lui era al lavoro, qualcuno fosse penetrato in casa e avesse fatto loro del male (oh, che meravigliosa illusione!).
Rivide se stesso entrare finalmente in cucina, e arrestarsi mentre il suo cervello tentava di dare un senso alla scena che gli si mostrava.
Come se fosse accaduto solo il giorno prima, invece che a distanza di anni, vide Nellie nel suo passeggino. Dormiva tranquillamente, il piccolo petto che si abbassava e alzava ritmicamente. Forse era stato proprio questo a far sì che Jane decidesse di lasciarla un momento da parte.
Tom, il suo gemello, non era stato così fortunato. Tom raramente dormiva sereno. Più spesso che no, li deliziava con i suoi urli spaccatimpani, notte e giorno indifferentemente.
Nel momento in cui Dick era entrato in cucina, Tom si trovava disteso sul piano in marmo, lo stesso su cui Jane aveva preparato tutti i loro pasti negli anni passati insieme. Sembrava pronto per il bagnetto, con i vestiti accuratamente ripiegati su un lato del piano di lavoro.
Ma c’era qualcosa che non andava in lui. Tom aveva uno strano colore, ed era così innaturalmente immobile da sembrare un bambolotto.
Dick ci mise un po’ a registrare lo squarcio che aveva nel collo per quello che era. Era talmente profondo che se qualcuno lo avesse preso in braccio, di certo la testa gli sarebbe ricaduta all’indietro, come il cappuccio di una felpa.
Jane era in piedi accanto al piano di lavoro, e quando Dick entrò nella stanza lo guardò e gli sorrise, radiosa come non era abituato a vederla da molto, troppo tempo.
La sua bocca era macchiata di rosso. A Dick ricordò la donna di una orrenda pubblicità di un sugo pronto.
“Devono tornare dentro la loro mamma. Sono i miei bambini” disse Jane, senza smettere di sorridere.
Poi si chinò su Tom, per riprendere da dove si era interrotta.
Dick sentì di nuovo nelle orecchie il rumore dei denti che laceravano la carne (niente più filetti al sangue da quel giorno per il signor Dick Clarkson, no davvero, grazie), e decise di averne avuto abbastanza.
Staccò la spina, spense il cervello.
Camminò come un automa fino all’armadietto del mobile bar, nell’angolo della stessa cucina dove sua moglie aveva interpretato la sua versione del Conte Ugolino, e si versò una dose abbondante di Vodka.
Diede un’occhiata all’orologio a muro. Le due e un quarto. Nellie sarebbe rimasta al compleanno della sua amichetta Angela per tutto il pomeriggio. L’avrebbero riaccompagnata a casa intorno alle sei. Dick valutò il contenuto della bottiglia. Era piena per tre quarti.
Basterà per riarginare la diga, perlomeno per oggi pensò, vuotando il bicchiere e riempiendolo di nuovo.
Avrebbe dovuto lavorare, nello studio al piano di sopra lo aspettavano tonnellate di incartamenti da vagliare, ma al momento il binomio alcool e TV gli sembrava l’unico degno di considerazione.
Al diavolo il lavoro, non mi licenzieranno di certo per qualche ora di libertà.
Prese bicchiere e bottiglia e si trasferì in soggiorno. Valutò se portare con sé anche qualcosa da sgranocchiare, ma scartò immediatamente l’idea. Perché mai avrebbe dovuto? A stomaco vuoto si sarebbe ubriacato molto più in fretta.
Si lasciò cadere sulla sua poltrona, e accese il televisore.
Alla quarta vodka, le immagini che si rincorrevano nella sua mente iniziarono a farsi lattiginose, come se le stesse vedendo attraverso una densa coltre di nebbia.
Il mal di testa si era fatto più pressante, le vene delle tempie pulsavano dolorosamente, ma per esperienza Dick sapeva che con un altro paio di bicchieri avrebbero rimandato tutti questi fastidiosi dolori all’indomani, quando, tornato sobrio e in sé, senza inopportuni ricordi dell’ultimo pasto che sua moglie aveva consumato in quella casa.
Cambiò canale tre o quattro volte, finchè finì col sintonizzarsi su un programma di gossip.
Quando doveva staccare il cervello, niente era più efficace della cronaca degli ultimi amori con annesse scappatelle della stellina di turno.
Anche se gli importava dell’impero di JLo quanto di una scorreggia di Ralphie, il criceto di Nellie, concentrò comunque tutta l’attenzione che riusciva a mettere insieme sul servizio, facendosi rapire dalla voce narrante che spiegava come la celebre cantante, partendo dal nulla, avesse poco alla volta messo in piedi una rete di prodotti che comprendevano, tra le altre cose, una linea di abbigliamento, cosmetici e il suo famoso profumo.
Il profumo.
Era stato il ricordo del profumo di Jane a fargli crollare addosso quella valanga di ricordi.
Perché diavolo mi è venuto in mente il profumo di Jane? si chiese, sorseggiando la vodka e guardando Jennifer Lopez mostrare le sue numerose pellicce e le sue ciglia di vero pelo di volpe.
Non ci pensavo da mesi, come minimo.
Inspirò con il naso, e lo sentì.
Verity75. Era tutto intorno a lui. Era reale, non era un ricordo.
Entrando in casa, il suo inconscio aveva registrato e ricordato quello che alla sua mente cosciente era sfuggito.
Ma quello che nell’ingresso era una traccia quasi impercepibile, nel soggiorno ora era netto e deciso.
JANE! urlò il cervello di Dick.
Scattò in piedi e si girò.
E lei era lì, in piedi alle spalle della poltrona dove lui si stava ubriacando ignaro.
Era più magra di quando l’aveva vista l’ultima volta, molto di più. La sua pelle aveva assunto la tonalità opaca e spenta di chi non vede la luce del giorno da molto, molto tempo. I capelli, una volta biondi e frizzanti come quelli di Grace Kelly, ora ricadevano giallastri e flosci lungo le sue braccia ossute. Nemmeno gli occhi erano più quelli della Jane di cui si era innamorato. C’erano creature urlanti dietro le iridi della donna che aveva di fronte, Dick poteva quasi vederle contorcersi in preda al tormento. Ma era lei, ed era lì.
“Jane” disse Dick, e non seppe come proseguire.
Come era fuggita dall’ospedale? Diamine, quel posto era fortificato peggio di Guantanamo, aveva persino le guardie armate all’ingresso. E come diavolo era riuscita ad entrare in casa?
“Jane… perché sei qui?” chiese alla fine. Aveva bisogno di tempo, doveva riordinare le idee.
Aveva passato anni a temere il ritorno della moglie, e ora che era davvero accaduto non sapeva che fare.
“Questa è casa mia” rispose lei, semplicemente come si trattasse di un’ovvietà.
La sua voce era lievemente acuta, ma a parte il profumo era forse la cosa che in lei era cambiata meno.
“La tua casa adesso è all’ospedale, lo sai Jane” disse Dick. Parlava lentamente, non sapeva con esattezza quanto sua moglie fosse in grado di capire i concetti che lui le esprimeva, per quanto elementari. Non aveva idea di come funzionasse la mente di Jane, aveva rinunciato a capirlo molto tempo prima, e aveva sperato di non aver più bisogno di farlo.
E invece nella vita non si può mai dire, vecchio mio. Le belle sorprese sono sempre dietro l’angolo.
“Voglio vedere la mia bambina” disse Jane.
Non si era mossa, non aveva spostato nemmeno un’unghia da quando Dick si era accorto di lei. Era impalata dietro la poltrona, le braccia abbandonate lungo i fianchi e i pugni stretti. Non sembrava capire appieno quello che la circondava. A dirla tutta, non sembrava trovarsi sullo stesso piano di realtà di Dick.
“Nellie non è qui” rispose Dick, e inviò un muto ringraziamento a Dio, che aveva fatto sì che Jane scegliesse proprio quel giorno per la sua improvvisata.
“Voglio vedere la mia bambina” ripetè Jane, come un disco rotto.
Dick sospirò “Jane… non è qui. Nellie non è in casa oggi, non puoi vederla”
Devo chiamare l’ospedale. Forse la stanno già cercando. Il numero credo che sia nella rubrica sulla scrivania. Posso lasciarla qui da sola mentre salgo a prenderlo?
“Nellie” ripetè Jane, e due lacrime le scivolano lungo le guance.
“Jane, non fare così. Adesso chiamiamo l’ospedale così verranno a prenderti e ti riporteranno nella tua stanza, dove potrai riposare. Devi riposare, Jane. Domani io e Nellie verremo a trovarti, te lo prometto”
Una promessa fatta ad una pazza infanticida non conta, giusto?

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