Siamo a meno 10 *__* quasi non ci credo, è una vita che ho i biglietti (dal 25 giugno, per la precisione) e essere a tiro non mi sembra vero *__*
Anche se stavo riguardando i posti che sono riuscita ad accaparrarmi. (non ho più riguardato niente da giugno... c'era troppo tempo in mezzo).. cioè, sono davvero dei posti di merda, lontanissimi... sob... d'altronde, andandoci in 4 era impossibile trovare posti decenti vicini... vabbè, ci si accontenta, poi se tornano nel 2010 necessito parterre e transenna U_U
Vabbè, vabbè, parliamo d'altro (beh, in un certo senso :P).
Vabbè, vabbè, parliamo d'altro (beh, in un certo senso :P).
Oggi posto una vecchissima intervista del 2002 (da Tutto Musica), dato che parlavo del suo contenuto qualche giorno fa con la Vale. Visto che mi è capitata sotto gli occhi, ne approfitto:
MATT HA UN SEGRETO. PROPRIO COME IN UNA DELLE CANZONI CHE STANNO FACENDO DEI MUSE UNO DEI GRUPPI PIU’ FAMOSI DEL MONDO.
Probabilmente non è a caso che il testo di Muscle Museum, brano che li ha fatti conoscere al grande pubblico ai tempi del loro primo album, Showbiz (e oggi riproposto in una devastante versione dal vivo in Hullabaloo), suonasse così intenso e misterioso. C’è qualcosa di diverso da tutte le altre in questa band. Qualcosa che a tratti contrasta con la loro affabilità. Qualcosa di difficile da afferrare. Tanto che neppure il sole di oggi, che luccica bianco e inesorabile nel cielo senza nuvole, sembra riuscire a illuminare il lato oscuro di Matthew Bellamy. Forse è come una maledizione. Una di quelle cose a cui non ci si può sottrarre perché è scritta nel destino. Una di quelle cose che capita poche volte nella storia. Uno cosa fatta di potenza arcana, come un tempo accadde per un altro gruppo che aveva fulminato al cuore i giovani di tutto il mondo: un gruppo chiamato Nirvana. La band di Kurt Cobain aveva quella cosa. Indefinibile. Ma che se avessi potuto darle un nome, avresti detto solo che profumava di spirito adolescente (proprio come diceva la canzone) e che aveva una forza da farti attorcigliare le viscere. Una forza che non era mai più tornata sulla scena della musica. Fino ad ora, forse. Fino a che non sono arrivati i Muse. Con le loro chitarre laceranti. Con le loro armonie barocche. Con le loro armonie tenebrose e oblique. La parola per descrivere tutto questo è una sola: MAGIA. E nel caso dei Muse ha un doppio significato, come scopriremo più tardi.
“Questo caldo è incredibile, sembra una condanna. Ma è sempre così, qui in Italia?”, bisbiglia Matt al vento, stringendosi nelle spalle mentre con la mano spegne una risata nervosa. Al suo fianco camminano l’esuberante Dominic Howard e il sempre più riservato e taciturno Chris Wolstenholme. Non dicono nulla, intenti a guardarsi intorno, spaesati, da dietro gli occhiali scuri. Ci sono soltanto poche centinaia di metri che dividono i camerini, dotati di aria condizionata, dai box dove è stato allestito il set fotografico. Eppure l’asfalto dell’Autodromo di Imola, dove potentissime macchine corrono a folli velocità, sembra massa viva, capace di inghiottirti quando meno te lo aspetti. Matt non è abituato a lamentarsi, anche se di recente, dopo aver trascorso un intero fine settimana a farsi l’esame di coscienza con l’aiuto di qualche funghetto magico, si è reso conto di aver come perso gran parte della sua personalità, quasi non possedesse più nulla, vuoto “Quasi come se non avessi una coscienza e non fossi più un essere umano” spiega, con sfuggente noncuranza, come se fosse una cosa da nulla.
“Ho iniziato a recriminare su ogni cosa, qualsiasi stupida cosa”, continua, finalmente al riparo all’ombra della tettoia del box. Ogni tanto, all’improvviso, lo vedi che ti lancia un’occhiata fulminea, come per saggiare le tue reazioni.
Nel buio del locale, intanto, sembra divertirsi ad ascoltare le istruzioni per il funzionamento di una pistola colorata che, munita di due eliche, riempie l’aria di bolle di sapone: un’idea del nostro fotografo in omaggio al titolo del nuovo album.
A Matt e agli altri l’idea sembra piacere subito. Una seduta fotografica è un momento complesso: la creatività di chi fa le foto si incontra con quella dei musicisti e non sempre c’è intesa. È sempre una lotta psicologica che lascia un po’ di tensione nell’aria, che non si scioglie fino all’ultimo scatto.
In piedi contro il telone bianco, Matt proietta una tenue sagoma sul soffitto che assomiglia allo scheletro di un albero morto. Ma questa volta, sotto ai vestiti neri, le sue vene non sono macchiate di blu, come un tempo.
“Mi divertivo a seguire il percorso delle mie vene con un pennarello. A scuola mi annoiavo, e allora passavo il tempo a dipingermi la pelle di nascosto, sotto il banco. Mi ha sempre affascinato il modo in cui siamo fatti, l’anatomia del corpo umano, pensare a ciò che se ne sta appena sotto la cute”, aveva raccontato qualche mese fa, la prima volta che ci eravamo incontrati. Quello che sta sotto: ecco uno dei misteri da sciogliere.
L’anatomia del corpo umano, fatta di carne e sangue, che convive con l’invisibilità delle emozioni: elementi opposti. Proprio come la grazia e l’inquietudine che si dibattono nelle canzoni dei Muse.
LE CHITARRE URLANTI DI PANDEMONIA
A Teignmouth, un piccolo paese nel Devonshire, che di certo non aveva le potenzialità per preparare i ragazzi a costruirsi una vita di buoni propositi, Matthew Bellamy decise che ce l’avrebbe fatta. Come molti altri suoni coetanei che studiavano al Community College, appena compiuti i tredici anni mise in piedi un gruppo rock per dare sfogo alla sua vitalità di adolescente e illudersi, per un attimo, di essere il nuovo Kurt Cobain.
“Quella era la tipica cittadina dove ti annoi perché non c’è nulla da fare”, ricorda Matt seguito da un cenno di approvazione di Dominic, intento a far ondeggiare la testa dall’alto verso il basso, “dove i ragazzi non vedono l’ora di essere indipendenti e di andarsene il più lontano possibile. D’altronde, io stesso sono sempre stato stuzzicato dall’idea di fare tanti soldi, in modo facile e veloce. Per questo motivo, c’era molto fermento. Ogni giorno nasceva un gruppo diverso. C’era persino una strana leggenda secondo cui tutta quell’energia era arrivata come una musa, discesa dal cielo: è da lì che abbiamo preso il nostro nome. Eppure, in un posto così, era anche molto facile perdersi. La criminalità tra i giovani era forte e, davvero, per molti la musica era stata più di una salvezza. Sarei potuto finire male, perché prima o poi ti capita di entrare in certi loschi giri”, ricorda Matt con un ghigno a metà strada tra il compiaciuto e l’imbarazzato “Come tanti altri sono cresciuto cibandomi di tv e tecnologia. Ricordo che a scuola c’erano due ragazze che si divertivano a tagliarsi con delle lamette, e io mi chiedevo e domandavo a loro: Ma perché fate questo? Avevo circa quindici anni e loro erano persone davvero strane. Ancora adesso non ho una risposta precisa a quella domanda, anche se sono quasi sicuro che si facessero del male per imitare certi loro idoli.”
Matt, Dominic e Chris si incontrano quasi per caso. I loro genitori, senza motivazioni degne di nota, si trasferirono nel Devon da città molto diverse e lontane come Cambridge, Manchester e la pacifica, verde regione dello Yorkshire. Marilyn, la madre di Matt, incontrò il suo futuro marito appena arrivò, da Belfast, in Gran Bretagna. George era un conducente di taxi con la passione per la chitarra. Negli Anni 60 aveva militato nei Tornadoes, un gruppo che aveva avuto il merito di piazzare un singolo, Telstar, al primo posto della classifica statunitense. Marilyn, dal canto suo, passava le giornate a sistemare la casa e a badare ai figlioletti, Matt e Paul. Ma c’era anche qualcosa di strano, di diverso da quello che succede in una famiglia qualunque: occasionalmente, con l’arrivo delle amiche, la signora Bellamy si dedicava a coltivare i suoi poteri di medium, invocando le anime dei morti con l’aiuto della tavola Ouija.
Anche se la musica è sempre stata una forte presenza in casa Bellamy, Matt non toccò seriamente un pianoforte fino a quando si iscrisse a scuola. “La prima canzone che imparai a suonare è stata la sigla di Dallas, il telefilm”, racconta Matt con le dita infilate tra i capelli neri e lucidi. “Quando avevo circa tre anni, mio fratello Paul si divertiva a farmi roteare in aria. Poi, mi metteva davanti alla televisione, avvicinava il pianoforte e mi lasciava giocare coi tasti, ma con un dito solo. Mi mostrava ai suoi amici come se fossi un trofeo, sghignazzando sul fatto che ero più simile a una macchina che a un bambino perché riuscivo a riprodurre subito tutte le musiche che sentivo”. Così, quando nel 1998 Matt e compagni firmarono per la Maverick, l’etichetta discografica voluta da Madonna che distribuisce i loro dischi negli Stati Uniti, nessuno ne rimase poi così colpito: sembrava scritto nel destino. Nel momento in cui la chitarra urlante di Matthew cominciò a straziare le melodie delle canzoni da lui stesso composte, la gente che ascoltava iniziò a capire di aver davanti qualcosa di nuovo ed unico: ascoltare i Muse era come essere al centro di un tornado. O magari, in un regno fatato, quello di Pandemonia, dove si scatenavano improvvisamente le forze della natura, le chitarre ti sollevavano con la forza del vento per portarti via lontano, lontano in un mondo dove bellezza e tristezza erano due facce della stessa medaglia.
Oggi dopo Showbiz, Origin of Symmetry e un doppio disco contenente un’impressionante esibizione dal vivo e materiale raro, al quale è abbinato anche un dvd, Hullabaloo, i Muse sembrano destinati a conquistare il mondo intero, quello reale. Un risultato che sarà raggiunto, come conclude Matt a denti stretti, “Solo quando riusciremo a vendere dieci milioni di copie. Allora, dopo che mi saro' costruito un fisico alla Ricky Martin, ritroverò Madonna ai miei piedi, insieme a tre o quattro altre sue amichette, intenta a farmi un pompino”
ANGELI DALL' INFERNO
Da lontano Matthew, sul palco, sembra una creatura di un altro mondo.
Le punte acuminate della sua pettinatura lo fanno assomigliare a uno dei supplizianti del film Hellraiser: Angeli dell’Inferno. Creature che possono portare insieme la pace e il dolore. Così come la tenebra luminosa di Darkshines o di Micro Cuts, ora ti accarezza e subito dopo ti colpisce col freddo di una lama tagliente.
Nel camerino, la pelle già bianca di Matthew Bellamy appare ancora più spettrale. Seduto tra il batterista Dominic Howard e il bassista Chris Wolstenholme, relegato nell’angolo più distante della stanza, Matt fa scricchiolare, con movimenti convulsi, la poltroncina di vimini. Nervoso,
ossuto e indecifrabile, è l’unico a togliersi gli occhiali da sole e scoprire gli occhi piccoli e infossati, che per un attimo mandano strani bagliori riflessi, illuminati dai neon azzurrognoli.
“Starò un po’ qui in Italia, mi piace”, dice subito Matt, curiosamente disposto a fare una confessione non richiesta. “Sto con una ragazza adesso e la raggiungerò a Milano. Devo conoscere la sua famiglia. Sono un po’ agitato” Dominic e Chris abbozzano un sorriso, maliziosi, mimando per un attimo la scena dell’incontro di due delicati e innamorati fidanzatini. Un atteggiamento che sembra agli antipodi rispetto alle immagini contenute nel dvd di Hullabaloo, che raccontano la vita del gruppo durante il lungo tour che, in pochi mesi, li ha portati a toccare Paesi tanto differenti come il Giappone e la Russia.
“Sicuramente nel documentario si riesce a comprendere molto bene qual è lo spirito dei Muse, attualmente. Per me un disco dal vivo è la vera essenza del gruppo. E’ il modo di sentire la verità, la realtà che sta dentro a un musicista. In giro abbiamo vissuto moltissime cose. Una volta a San Pietroburgo dovevamo suonare in un club, ma effettivamente si trattava di una bisca, ricavata sotto terra, dove la gente si faceva di ogni droga e trattava di affari che avevano tutta l’aria di essere poco puliti. Abbiamo avuto un po’ di paura, pensavamo di finire ammazzati da qualcuno. Era uno di quei posti con lo spioncino alla porta, proprio come nei film”.
Matt sistema la cravatta di pelle e stoffa nera trafitta da alcuni spilloni che un ammiratore gli ha donato. I suoi capelli appuntiti, piantati in testa come lunghi chiodi sulla faccia dei Cernobiti di Hellraiser, si muovono in un fremito. “Quando ascolto la musica classica riesco a percepire le sensazioni della persona che ha composto quell’opera, come se ci avesse gettato dentro la sua anima. Questo sentimento di piacere che ricevo è quasi un’estasi, mi fa comprendere qualcosa dell’immortalità. Credo che le persone continuino a vivere attraverso le influenze che hanno avuto sugli altri esseri umani”.
Come se improvvisamente si fosse ricordato di qualcosa di orribile, Matt si fa cupo, dimenticandosi degli scherzi e affrettando i movimenti. “Forse c’è qualcosa di nascosto nel mio inconscio. Molti particolari del mio aspetto fisico, del modo in cui mi muovo, probabilmente arrivano dai recessi della mia mente. Ma non so dare una spiegazione, come non riesco a descrivere con le parole ciò che provo quando comincio a suonare. E’ qualcosa di estremamente puro e semplice”.
IO SENTO I MORTI CHE PARLANO
Quando Matthew entrò nella stanza, ciò che vide era destinato a rimanergli impresso nella mente per il resto dei suoi giorni.
Aveva solo nove anni. Giù, nel sottoscala, sua madre insieme al padre e al fratello erano radunati, al buio, davanti alla tavola Ouija. Bastavano poche domande e un pò di concentrazione per attirare gli spiriti dei defunti e capirne segreti e richieste. Ma lui era troppo piccolo, avvicinarsi gli era vietato. Quel giorno, però, Matt non venne allontanato. Anzi, la famiglia lo invitò a sedersi, tra candele accese per creare l’atmosfera adeguata.
“Mia madre era una medium e continua a praticare anche adesso”, spiega Matt con lo sguardo fermo. E, per un attimo, anche Dominic e Chris restano muti: c’è uno strano, immobile silenzio nell’aria. “Non mi sembrava una situazione di cui aver paura: nella mia famiglia era qualcosa di assolutamente normale. I morti parlano, punto. Rispondono alle domande che fai, se le poni in un certo modo. In seguito, ho provato anch’io a usare la tavola Ouija, ma ora non lo faccio più, no. Qualcosa di molto strano è successo anni fa...” Si ferma, sembra restio a continuare.
Dalla porta ci fanno segno che il tempo è terminato, che è ora di sistemare le attrezzature e tutto il resto prima di salire sul palco. Con un cenno del capo, Matt continua lo stesso. “Sì, è accaduto qualcosa di tremendo, ma non posso dirtelo. L’ho dimenticato. Ho dovuto dimenticarlo. Ho dovuto cancellare certe cose dalla testa. Ma se le ricordo, potrebbero tornare” E non andarsene, forse. Mai piu'. Un ricordo cancellato volutamente, che però preme per tornare. E Matt, che dice di non far uso di altre droghe, ammette di prendere ogni tanto dei funghi, di quelli che “Fino a qualche tempo fa, in posti come il Giappone, non erano nemmeno vietati”, per cercare di vedere al di là. “Io vedo i morti. Sento i morti che parlano”, racconta.
Un dono forse. O una maledizione. Proprio come la sua musica. Che sembra anch’essa venire da un altro mondo.
Mai detto che sto ragazzo stesse bene di testa... in fondo la genialità e la pazzia vanno a braccetto...
Comunque, nel caso qualcuno pensasse, con ottimismo, che questo riguradasse tempi passati, vorrei rassicurarvi. Qui potete leggere qualcosa di nuovo (4 settembre 2009). Ve lo riporto per comodità:
Matt Bellamy fa scorta di fagioli: "Presto saremo senza cibo"
Sarà la fine dell'estate. Sarà che le rockstar sono tutte un po' suonate. Oppure che l'emozione per l'uscita del nuovo disco, The resistance, prevista per la prossima settimana, si fa sentire di brutto. "Ho letto da qualche parte che nel giro di sette giorni il Regno Unito rimarrà senza olio", ha detto Matt Bellamy, leader dei Muse. "Altri sette giorni e saremo anche senza cibo".
Ehhh... già... :P
E per quanto riguarda il lato geniale, un assaggino, tanto per gradire ^^:
Probabilmente non è a caso che il testo di Muscle Museum, brano che li ha fatti conoscere al grande pubblico ai tempi del loro primo album, Showbiz (e oggi riproposto in una devastante versione dal vivo in Hullabaloo), suonasse così intenso e misterioso. C’è qualcosa di diverso da tutte le altre in questa band. Qualcosa che a tratti contrasta con la loro affabilità. Qualcosa di difficile da afferrare. Tanto che neppure il sole di oggi, che luccica bianco e inesorabile nel cielo senza nuvole, sembra riuscire a illuminare il lato oscuro di Matthew Bellamy. Forse è come una maledizione. Una di quelle cose a cui non ci si può sottrarre perché è scritta nel destino. Una di quelle cose che capita poche volte nella storia. Uno cosa fatta di potenza arcana, come un tempo accadde per un altro gruppo che aveva fulminato al cuore i giovani di tutto il mondo: un gruppo chiamato Nirvana. La band di Kurt Cobain aveva quella cosa. Indefinibile. Ma che se avessi potuto darle un nome, avresti detto solo che profumava di spirito adolescente (proprio come diceva la canzone) e che aveva una forza da farti attorcigliare le viscere. Una forza che non era mai più tornata sulla scena della musica. Fino ad ora, forse. Fino a che non sono arrivati i Muse. Con le loro chitarre laceranti. Con le loro armonie barocche. Con le loro armonie tenebrose e oblique. La parola per descrivere tutto questo è una sola: MAGIA. E nel caso dei Muse ha un doppio significato, come scopriremo più tardi.
“Questo caldo è incredibile, sembra una condanna. Ma è sempre così, qui in Italia?”, bisbiglia Matt al vento, stringendosi nelle spalle mentre con la mano spegne una risata nervosa. Al suo fianco camminano l’esuberante Dominic Howard e il sempre più riservato e taciturno Chris Wolstenholme. Non dicono nulla, intenti a guardarsi intorno, spaesati, da dietro gli occhiali scuri. Ci sono soltanto poche centinaia di metri che dividono i camerini, dotati di aria condizionata, dai box dove è stato allestito il set fotografico. Eppure l’asfalto dell’Autodromo di Imola, dove potentissime macchine corrono a folli velocità, sembra massa viva, capace di inghiottirti quando meno te lo aspetti. Matt non è abituato a lamentarsi, anche se di recente, dopo aver trascorso un intero fine settimana a farsi l’esame di coscienza con l’aiuto di qualche funghetto magico, si è reso conto di aver come perso gran parte della sua personalità, quasi non possedesse più nulla, vuoto “Quasi come se non avessi una coscienza e non fossi più un essere umano” spiega, con sfuggente noncuranza, come se fosse una cosa da nulla.
“Ho iniziato a recriminare su ogni cosa, qualsiasi stupida cosa”, continua, finalmente al riparo all’ombra della tettoia del box. Ogni tanto, all’improvviso, lo vedi che ti lancia un’occhiata fulminea, come per saggiare le tue reazioni.
Nel buio del locale, intanto, sembra divertirsi ad ascoltare le istruzioni per il funzionamento di una pistola colorata che, munita di due eliche, riempie l’aria di bolle di sapone: un’idea del nostro fotografo in omaggio al titolo del nuovo album.
A Matt e agli altri l’idea sembra piacere subito. Una seduta fotografica è un momento complesso: la creatività di chi fa le foto si incontra con quella dei musicisti e non sempre c’è intesa. È sempre una lotta psicologica che lascia un po’ di tensione nell’aria, che non si scioglie fino all’ultimo scatto.
In piedi contro il telone bianco, Matt proietta una tenue sagoma sul soffitto che assomiglia allo scheletro di un albero morto. Ma questa volta, sotto ai vestiti neri, le sue vene non sono macchiate di blu, come un tempo.
“Mi divertivo a seguire il percorso delle mie vene con un pennarello. A scuola mi annoiavo, e allora passavo il tempo a dipingermi la pelle di nascosto, sotto il banco. Mi ha sempre affascinato il modo in cui siamo fatti, l’anatomia del corpo umano, pensare a ciò che se ne sta appena sotto la cute”, aveva raccontato qualche mese fa, la prima volta che ci eravamo incontrati. Quello che sta sotto: ecco uno dei misteri da sciogliere.
L’anatomia del corpo umano, fatta di carne e sangue, che convive con l’invisibilità delle emozioni: elementi opposti. Proprio come la grazia e l’inquietudine che si dibattono nelle canzoni dei Muse.
LE CHITARRE URLANTI DI PANDEMONIA
A Teignmouth, un piccolo paese nel Devonshire, che di certo non aveva le potenzialità per preparare i ragazzi a costruirsi una vita di buoni propositi, Matthew Bellamy decise che ce l’avrebbe fatta. Come molti altri suoni coetanei che studiavano al Community College, appena compiuti i tredici anni mise in piedi un gruppo rock per dare sfogo alla sua vitalità di adolescente e illudersi, per un attimo, di essere il nuovo Kurt Cobain.
“Quella era la tipica cittadina dove ti annoi perché non c’è nulla da fare”, ricorda Matt seguito da un cenno di approvazione di Dominic, intento a far ondeggiare la testa dall’alto verso il basso, “dove i ragazzi non vedono l’ora di essere indipendenti e di andarsene il più lontano possibile. D’altronde, io stesso sono sempre stato stuzzicato dall’idea di fare tanti soldi, in modo facile e veloce. Per questo motivo, c’era molto fermento. Ogni giorno nasceva un gruppo diverso. C’era persino una strana leggenda secondo cui tutta quell’energia era arrivata come una musa, discesa dal cielo: è da lì che abbiamo preso il nostro nome. Eppure, in un posto così, era anche molto facile perdersi. La criminalità tra i giovani era forte e, davvero, per molti la musica era stata più di una salvezza. Sarei potuto finire male, perché prima o poi ti capita di entrare in certi loschi giri”, ricorda Matt con un ghigno a metà strada tra il compiaciuto e l’imbarazzato “Come tanti altri sono cresciuto cibandomi di tv e tecnologia. Ricordo che a scuola c’erano due ragazze che si divertivano a tagliarsi con delle lamette, e io mi chiedevo e domandavo a loro: Ma perché fate questo? Avevo circa quindici anni e loro erano persone davvero strane. Ancora adesso non ho una risposta precisa a quella domanda, anche se sono quasi sicuro che si facessero del male per imitare certi loro idoli.”
Matt, Dominic e Chris si incontrano quasi per caso. I loro genitori, senza motivazioni degne di nota, si trasferirono nel Devon da città molto diverse e lontane come Cambridge, Manchester e la pacifica, verde regione dello Yorkshire. Marilyn, la madre di Matt, incontrò il suo futuro marito appena arrivò, da Belfast, in Gran Bretagna. George era un conducente di taxi con la passione per la chitarra. Negli Anni 60 aveva militato nei Tornadoes, un gruppo che aveva avuto il merito di piazzare un singolo, Telstar, al primo posto della classifica statunitense. Marilyn, dal canto suo, passava le giornate a sistemare la casa e a badare ai figlioletti, Matt e Paul. Ma c’era anche qualcosa di strano, di diverso da quello che succede in una famiglia qualunque: occasionalmente, con l’arrivo delle amiche, la signora Bellamy si dedicava a coltivare i suoi poteri di medium, invocando le anime dei morti con l’aiuto della tavola Ouija.
Anche se la musica è sempre stata una forte presenza in casa Bellamy, Matt non toccò seriamente un pianoforte fino a quando si iscrisse a scuola. “La prima canzone che imparai a suonare è stata la sigla di Dallas, il telefilm”, racconta Matt con le dita infilate tra i capelli neri e lucidi. “Quando avevo circa tre anni, mio fratello Paul si divertiva a farmi roteare in aria. Poi, mi metteva davanti alla televisione, avvicinava il pianoforte e mi lasciava giocare coi tasti, ma con un dito solo. Mi mostrava ai suoi amici come se fossi un trofeo, sghignazzando sul fatto che ero più simile a una macchina che a un bambino perché riuscivo a riprodurre subito tutte le musiche che sentivo”. Così, quando nel 1998 Matt e compagni firmarono per la Maverick, l’etichetta discografica voluta da Madonna che distribuisce i loro dischi negli Stati Uniti, nessuno ne rimase poi così colpito: sembrava scritto nel destino. Nel momento in cui la chitarra urlante di Matthew cominciò a straziare le melodie delle canzoni da lui stesso composte, la gente che ascoltava iniziò a capire di aver davanti qualcosa di nuovo ed unico: ascoltare i Muse era come essere al centro di un tornado. O magari, in un regno fatato, quello di Pandemonia, dove si scatenavano improvvisamente le forze della natura, le chitarre ti sollevavano con la forza del vento per portarti via lontano, lontano in un mondo dove bellezza e tristezza erano due facce della stessa medaglia.
Oggi dopo Showbiz, Origin of Symmetry e un doppio disco contenente un’impressionante esibizione dal vivo e materiale raro, al quale è abbinato anche un dvd, Hullabaloo, i Muse sembrano destinati a conquistare il mondo intero, quello reale. Un risultato che sarà raggiunto, come conclude Matt a denti stretti, “Solo quando riusciremo a vendere dieci milioni di copie. Allora, dopo che mi saro' costruito un fisico alla Ricky Martin, ritroverò Madonna ai miei piedi, insieme a tre o quattro altre sue amichette, intenta a farmi un pompino”
ANGELI DALL' INFERNO
Da lontano Matthew, sul palco, sembra una creatura di un altro mondo.
Le punte acuminate della sua pettinatura lo fanno assomigliare a uno dei supplizianti del film Hellraiser: Angeli dell’Inferno. Creature che possono portare insieme la pace e il dolore. Così come la tenebra luminosa di Darkshines o di Micro Cuts, ora ti accarezza e subito dopo ti colpisce col freddo di una lama tagliente.
Nel camerino, la pelle già bianca di Matthew Bellamy appare ancora più spettrale. Seduto tra il batterista Dominic Howard e il bassista Chris Wolstenholme, relegato nell’angolo più distante della stanza, Matt fa scricchiolare, con movimenti convulsi, la poltroncina di vimini. Nervoso,
ossuto e indecifrabile, è l’unico a togliersi gli occhiali da sole e scoprire gli occhi piccoli e infossati, che per un attimo mandano strani bagliori riflessi, illuminati dai neon azzurrognoli.
“Starò un po’ qui in Italia, mi piace”, dice subito Matt, curiosamente disposto a fare una confessione non richiesta. “Sto con una ragazza adesso e la raggiungerò a Milano. Devo conoscere la sua famiglia. Sono un po’ agitato” Dominic e Chris abbozzano un sorriso, maliziosi, mimando per un attimo la scena dell’incontro di due delicati e innamorati fidanzatini. Un atteggiamento che sembra agli antipodi rispetto alle immagini contenute nel dvd di Hullabaloo, che raccontano la vita del gruppo durante il lungo tour che, in pochi mesi, li ha portati a toccare Paesi tanto differenti come il Giappone e la Russia.
“Sicuramente nel documentario si riesce a comprendere molto bene qual è lo spirito dei Muse, attualmente. Per me un disco dal vivo è la vera essenza del gruppo. E’ il modo di sentire la verità, la realtà che sta dentro a un musicista. In giro abbiamo vissuto moltissime cose. Una volta a San Pietroburgo dovevamo suonare in un club, ma effettivamente si trattava di una bisca, ricavata sotto terra, dove la gente si faceva di ogni droga e trattava di affari che avevano tutta l’aria di essere poco puliti. Abbiamo avuto un po’ di paura, pensavamo di finire ammazzati da qualcuno. Era uno di quei posti con lo spioncino alla porta, proprio come nei film”.
Matt sistema la cravatta di pelle e stoffa nera trafitta da alcuni spilloni che un ammiratore gli ha donato. I suoi capelli appuntiti, piantati in testa come lunghi chiodi sulla faccia dei Cernobiti di Hellraiser, si muovono in un fremito. “Quando ascolto la musica classica riesco a percepire le sensazioni della persona che ha composto quell’opera, come se ci avesse gettato dentro la sua anima. Questo sentimento di piacere che ricevo è quasi un’estasi, mi fa comprendere qualcosa dell’immortalità. Credo che le persone continuino a vivere attraverso le influenze che hanno avuto sugli altri esseri umani”.
Come se improvvisamente si fosse ricordato di qualcosa di orribile, Matt si fa cupo, dimenticandosi degli scherzi e affrettando i movimenti. “Forse c’è qualcosa di nascosto nel mio inconscio. Molti particolari del mio aspetto fisico, del modo in cui mi muovo, probabilmente arrivano dai recessi della mia mente. Ma non so dare una spiegazione, come non riesco a descrivere con le parole ciò che provo quando comincio a suonare. E’ qualcosa di estremamente puro e semplice”.
IO SENTO I MORTI CHE PARLANO
Quando Matthew entrò nella stanza, ciò che vide era destinato a rimanergli impresso nella mente per il resto dei suoi giorni.
Aveva solo nove anni. Giù, nel sottoscala, sua madre insieme al padre e al fratello erano radunati, al buio, davanti alla tavola Ouija. Bastavano poche domande e un pò di concentrazione per attirare gli spiriti dei defunti e capirne segreti e richieste. Ma lui era troppo piccolo, avvicinarsi gli era vietato. Quel giorno, però, Matt non venne allontanato. Anzi, la famiglia lo invitò a sedersi, tra candele accese per creare l’atmosfera adeguata.
“Mia madre era una medium e continua a praticare anche adesso”, spiega Matt con lo sguardo fermo. E, per un attimo, anche Dominic e Chris restano muti: c’è uno strano, immobile silenzio nell’aria. “Non mi sembrava una situazione di cui aver paura: nella mia famiglia era qualcosa di assolutamente normale. I morti parlano, punto. Rispondono alle domande che fai, se le poni in un certo modo. In seguito, ho provato anch’io a usare la tavola Ouija, ma ora non lo faccio più, no. Qualcosa di molto strano è successo anni fa...” Si ferma, sembra restio a continuare.
Dalla porta ci fanno segno che il tempo è terminato, che è ora di sistemare le attrezzature e tutto il resto prima di salire sul palco. Con un cenno del capo, Matt continua lo stesso. “Sì, è accaduto qualcosa di tremendo, ma non posso dirtelo. L’ho dimenticato. Ho dovuto dimenticarlo. Ho dovuto cancellare certe cose dalla testa. Ma se le ricordo, potrebbero tornare” E non andarsene, forse. Mai piu'. Un ricordo cancellato volutamente, che però preme per tornare. E Matt, che dice di non far uso di altre droghe, ammette di prendere ogni tanto dei funghi, di quelli che “Fino a qualche tempo fa, in posti come il Giappone, non erano nemmeno vietati”, per cercare di vedere al di là. “Io vedo i morti. Sento i morti che parlano”, racconta.
Un dono forse. O una maledizione. Proprio come la sua musica. Che sembra anch’essa venire da un altro mondo.
Mai detto che sto ragazzo stesse bene di testa... in fondo la genialità e la pazzia vanno a braccetto...
Comunque, nel caso qualcuno pensasse, con ottimismo, che questo riguradasse tempi passati, vorrei rassicurarvi. Qui potete leggere qualcosa di nuovo (4 settembre 2009). Ve lo riporto per comodità:
Matt Bellamy fa scorta di fagioli: "Presto saremo senza cibo"
Sarà la fine dell'estate. Sarà che le rockstar sono tutte un po' suonate. Oppure che l'emozione per l'uscita del nuovo disco, The resistance, prevista per la prossima settimana, si fa sentire di brutto. "Ho letto da qualche parte che nel giro di sette giorni il Regno Unito rimarrà senza olio", ha detto Matt Bellamy, leader dei Muse. "Altri sette giorni e saremo anche senza cibo".
Dopodichè, evidentemente sotto l'effetto di qualche droga oppure dopo un forte trauma, sembra che Bellamy si sia fiondato in un negozio di alimentari per fare scorta di fagioli. Nemmeno le attenzioni della sua fidanzata, l'italiana Gaia Polloni, psicologa di professione, sono riuscite a tranquillizzarlo.
"È italiana – ha spiegato Bellamy riferendosi alla girlfriend – loro hanno visto di tutto, hanno vissuto la caduta dell'Impero Romano, sono poco suscettibili. Noi invece siamo su un'isola, siamo molto più vulnerabili".Ehhh... già... :P
E per quanto riguarda il lato geniale, un assaggino, tanto per gradire ^^:
2 commenti:
tutto musica.. sono anni che ha chiuso i battenti
quanti ricordi!
Stupendo l'articolo. Mi ha lasciato più di qualcosa dentro...sai a cosa mi riferisco, dato che ne abbiamo parlato a lungo.
Eniuei...grazie per averlo postato, mi è piaciuto un casino. E che la mia venerazione cresce ogni giorno a dismisura non serve che te lo dica, vero?! =)
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