Fiesta, di Ernest Hemingway




"La fiesta era proprio cominciata. Sarebbe durata, giorno e notte, per una settimana. Sarebbero continuate le danze, sarebbe continuato il bere, non sarebbe cessato il rumore. Le cose che accaddero potevano accadere solo durante una fiesta. Alla fine tutto divenne irreale e sembrava che niente potesse avere conseguenze. Sembrava fuori luogo pensare alle conseguenze durante la fiesta. Per tutta la sua durata, avevi la sensazione, anche nei momenti di silenzio, di dover sempre urlare per farti udire. Era la stessa sensazione che provi durante un combattimento. Era una fiesta, e durò sette giorni."



Per anni sono sempre stata affascinata dall'idea di Hemingway, un concetto tutto mio difficile da spiegare. Titoli come Il vecchio e il mare e Per chi suona la campana mi hanno sempre incusso una specie di timore reverenziale (un po' come il Moby Dick di Melville, l'Ulysse di Joyce e Grandi Speranze di Dickens). Sono quei libri di cui ho sempre sentito parlare in toni ammirati, ma che poi per un qualche motivo avevo paura di affrontare, paura di non riuscire a capirli od apprezzarli, paura di ritrovarmi a pensare che dei capisaldi della letteratura sono in realtà dei mattoni indigeribili o delle montagne insormontabili, troppo dure da scalare.
Ma ultimamente ho preso la decisione di cercare di recuperare tutti quei grandi classici moderni, tutti quegli autori che per pura pigrizia (o, appunto, per un qualche ingiustificato timore) ho finora lasciato in un limbo, in attesa della giusta ispirazione che, a quanto pare, finalmente è arrivata (ringraziamo il cielo). Per dirla con Hornby, "a mano a mano che invecchio, sento sempre di più il peso della mia ignoranza".

Mi sono lanciata quindi sul primo successo di Ernest Hemingway, Fiesta, per socializzare un attimo con l'autore e conoscere il suo stile di scrittura prima di buttarmi su gli altri suoi romanzi celebri (ma non immediatamente: non potrei apprezzarli in maniera adeguata se li leggessi tutti di fila, ho bisogno di un po' di stacco per digerire ogni libro singolarmente).

L'impatto è stato decisamente positivo: lo stile di Hemingway è così vivo, veloce e leggero da trascinarti con semplicità non solo nella lettura, ma proprio nella realtà che descrive, come fosse un qui e ora, e i dialoghi sono asciutti, vibranti e divertenti, così in un attimo mi sono ritrovata immersa nelle atmosfere decadenti dei caffè parigini, ad ascoltare le chiacchiere da ubriachi dei personaggi protagonisti di questo romanzo, e poi di nuovo in viaggio con loro per partecipare alla Fiesta di San Firmino di Pamplona, ed assistere alle loro piccole tragedie personali.

La trama non è un granché, in fondo non succede praticamente nulla, ma la trama in sé passa decisamente in ultimo piano in un libro come questo, che è talmente vivace e ricco di descrizioni fotografiche e dettagli di vita vissuta che potrebbe tranquillamente essere un diario di viaggio, e non un romanzo. In effetti, il libro è per larga parte autobiografico, infatti Hemingway racconta, riadattandole e condensandole, tre esperienze di viaggio che ha vissuto in prima persona in Spagna, in compagnia di sua moglie e di alcuni suoi amici, tutti abilmente tratteggiati nei personaggi del libro (tanto che i diretti interessanti si sono molto offesi, leggendolo, dato che il ritratto che ne esce è di un gruppo di spiantati ubriaconi senza uno scopo nella vita e senza spina dorsale, dove Hemingway è l'unico a mostrarsi come un minimo posato e con un briciolo di amor proprio).

Dalle parole e dalle descizioni emerge chiarissimo il profondo amore che nutriva Henmingway per la spagna e per la tauromachia - cosa che decisamente non condividiamo. Ma ci dev'essere del buono nella sua scrittura, e del fuoco nella sua passione, se mi ha quasi fatto venire voglia di assistere ad una corrida durante una Fiesta. Sottolineo quasi, perchè la trovo una pratica barbara che andrebbe proibita per legge, e con grande sofferenza ho letto tutte le parti riguardanti i tori, i manzi e i cavalli. D'altronde io ed Ernest - misogino, cacciatore, appassionato di corride, antisemita, tanto per dire - non saremmo mai potuti essere amici. O forse non è vero. Magari avremmo litigato su questi temi, ma poi ci saremmo scolati una bottiglia e avremmo parlato d'altro. Magari proprio dei pacifici paesaggi spagnoli, o della follia collettiva di una Fiesta che per sette giorni e sette notti non si interrompe mai.



"Si alzò sbiancato in viso e rimase in piedi, cereo e furioso, dietro i piattini di hors-d'oeuvre.
"Siediti" dissi. "Non fare lo scemo."
"Devi ritrattare quel che hai detto."
"Oh, piantala con queste frasi da ginnasiale."
"Ritrattalo."
"Ma sì. Ritratto tutto. Non ho mai saputo niente di Brett Ashley. Va bene così?"
"No. Non questo. Il fatto di avermi mandato all'inferno."
"Bè, non andare all'inferno." dissi. "Resta qui. Abbiamo appena cominciato a pranzare.""


"E' facilissimo reagire con freddezza alle cose durante il giorno, ma di notte è tutto un altro discorso."


"Per chi fa il giornalista è essenziale scoprire scappatoie eleganti (...), perché un'importante regola del mestiere è che non devi mai dare l'impressione che stai lavorando."



"Certo che mi piace bere" disse Bill. "Dovresti provare anche tu qualche volta, Jake." 
"Su di me hai quasi centoquarantaquattro bicchieri di vantaggio." 
"Non dovrebbero scoraggiarti. Mai scoraggiarsi. Il segreto del mio successo. Non mi sono mai scoraggiato. Mai scoraggiato in pubblico." 
"Dove sei stato a bere?" 
"Mi sono fermato al Crillon. George mi ha fatto un paio di Jack Rose. Grand'uomo, George. E sai il segreto del suo successo? Non si è mai scoraggiato." 


"La via dell'inferno è lastricata di cani impagliati non acquistati"


"E' questo che bisogna fare. Viaggiare finché si è giovani."

Share |

Nessun commento: