Waiting for Muse - The Countdown: -30

Oggi inizio il countdown per il concerto dei Muse. Sopportatemi, per me è un'evento...

Domani partirò con i pezzi storici, ma dato che il concerto che andrò a vedere è del The Resistance Tour, mi sembra più giusto partire con i pezzi del nuovo album.
Non so chi tra gli eventuali lettori del blog sia un fan, nel caso mi piacerebbe sapere cosa ne pensate del nuovo album.
Vi dico la mia? Sì? (tanto lo faccio lo stesso :P)
Allora, per me l'album migliore del trio rimane Origin of Simmetry. Sarà perchè è l'album con cui li ho conosciuti, quello che mi ha fatto innamorare della loro musica, che mi ha aperto un mondo nuovo, per le sonorità allucinanti, per l'atmosfera, per la chitarra, per la voce, per la batteria... per il basso!!! Vabbè, non sto dicendo niente di concreto, sto cercando di parlare di emozioni, perchè io di musica non ne capisco una cippa, e un parere tecnico non riuscirei mai a metterlo insieme. MA non volevo parlare di OOS (Origin of Simmetry), volevo parlare di The Resistance.
Dicevo, premesso che per me il migliore rimane OOS, che se la gioca comunque parecchio con Showbiz (una perla, un disco d'esordio allucinante) e Absolution (altro disco assolutamente meraviglioso), dopo l'uscita di Black Holes and Revelations ero un pò timorosa. Le superchicche radiofoniche di Starlight e Supermassive Black Holes, associate all'aumento esponenziale della notorietà del trio, mi facevano temere una caduta commerciale.
E invece... e invece The Resistance è un disco che o lo ami o lo odi, questo l'ho capito leggendo i pareri dei fan e degli altri "addetti ai lavori". Io lo amo. Non da subito, devo dire. Non è un disco facile da amare come Absolution, è più ostico da digerire fino in fondo. Al primo ascolto, non mi ha colpito più di tanto. Al secondo, ero già innamorata di Resistance e Unnatural Selection. Al terzo, le Exogenesis, la sinfonia, ha iniziato a strisciare lenta fino al centro del mio cuore. Poi l'ho lasciato riposare un pò, l'ho ripreso dopo una settimana e l'ho riascoltato. Adesso ne sono innamorata. Ho già detto che io di musica non ci capisco una cippa di niente, parlo solo di emozioni. The Resistance è un disco pieno zeppo di emozioni. E' vero, ha molte ispirazioni anni 80, non è che la cosa deve essere per forza negativa, se lavorata con maestria. E scusatemi, ma Bellamy e compari di maestria ne hanno da vendere. E' vero, viene criticato perchè sembra un calderone ribollente di influenze di ogni genere. I Queen, gli anni 80, la musica araba, la musica classica di inizio secolo, Chopin... sembra troppo per un disco solo, ma per me si fonde tutto benissimo, scorre liscio fino in fondo, fino alla botta finale delle 3 Exogenesis. Perchè quelle sì che sono un piccolo capolavoro. Da sole valgono tutto il disco. Riprendendo in mano il cd, ho scoperto che MK Ultra è un pezzo Muse fino al midollo, che I Belong to you cazzarola, è proprio un gran bel pezzo (e dire che al primo ascolto avevo riso per il francese, chiamiamolo così, di Matt... ancora adesso rido per quello, ma la canzone è bella), che Uprising ha una bella carica, che United States of Eurasia, nonostante gli Eura-Sia ripetuti alla fine, è notevole... Delle altre ne ho già parlato, l'amore rimane e aumenta ad ogni ascolto.
Le uniche note stonate sono la incomprensibile Undisclosed Desires (forse auspicavano una collaborazione con Justin Timberlake? Perchè il brano sembra tirato fuori da uno dei suoi dischi... o forse i funghi stavolta erano guasti... speravo avessero perso una scommessa, ma ho visto il making of e a quanto pare sembrano convinti... mah... d'altronde, li amo anche per la sperimentazione... però questa se la potevano risparmiare. Sta pure per uscire come singolo, argh) e Guiding Light, che non mi dice niente. Poi vabbè, Matt fa tutti i suoi vocalizzi, e te la fa piacere per forza, però è un pò troooppo romanticona per i miei gusti. Potevo anche farne a meno, però è mooolto meglio di Invincible, ad esempio, quindi se non altro ha un punto a favore.
Per me, come disco ci sta tutto, l'evoluzione dei Muse mi piace (bisogna rassegnarsi: quelli di Showbiz o di OOS non ci sono più, non hanno più vent'anni ormai), e mi fa ben sperare nel futuro. Oso addirittura sperare in un futuro album ancora più incentrato sulle influenze classiche, perchè no... certo, volessero poi tornare a farmi pezzi come Dead Star o Citizen Erased io sono la prima a stappare una bottiglia, non lo nego. Ma mi affido a loro, fino ad esso non mi hanno (+ o -) mai delusa.

Vabbè, non credo che scriverò post lunghissimi anche nei prossimi giorni, non voglio che vi impicchiate nel leggerli, però devo aggiungere un articolo che ho letto e mi è piaciuto moltissimo. Visto che io non ne capisco, lascio parlare qualcuno che invece sì.
E' un articolo di "Total Guitar", estate 2007 (aggiornato quindi all'ultima uscita discografica prima di The Resistance, il dvd+cd live di H.A.A.R.P., mega concerto al Wembley Stadium)

03 Aug 2007
Muse-News: Matt Bellamy: il nuovo genio della chitarra

Nel 1966, Jimi Hendrix strappò il regolamento e cambiò la faccia del rock, così come fece Eddie Van Halen nel 1978. E in questo preciso momento, Matt Bellamy dei Muse sta facendo esattamente lo stesso. Total Guitar saluta il primo genio della chitarra del ventunesimo secolo

Wembley Stadium, Londra, 17 Giugno. L’ometto col vestito rosso inarca teatralmente un sopracciglio, prende la mira con la sua Manson elettrica e spara un riff che scuote la scintillante arena fino alle sue fondamenta fresche di cemento. Gli architetti del liftato stadio nazionale britannico si staranno cagando addosso, ma la folla è in estasi; si solleva come una mandria punzecchiata; urla la sottile leccata che si innalza come fosse God Save the Queen. Ed è in questo preciso momento – nel mezzo della pomposità e della furia di Plug In Baby, nella notte di domenica della settimana di residenza in Giugno dei Muse – che Total Guitar ha una folgorazione. È passato molto, molto tempo dall’ultima volta che abbiamo visto un chitarrista così bravo. È passato molto, molto tempo dall’ultima volta che abbiamo ascoltato riff che spinge così in là i confini. Questo concerto è la Woodstock della nostra generazione e Matt Bellamy è il nostro Jimi Hendrix

Tutti ci ricordiamo la prima volta che abbiamo ascoltato Matt Bellamy. Per un pugno di fortunati è stato alla data nel Devon quando lui, il batterista Dom Howard e il bassista Chris Wostenholme suonarono il loro primo concerto come Rocket Baby Dolls nel 1994. “Era un contest battaglia-delle-band” ricorda il chitarrista. “Eravamo coperti di makeup goth, contro questi tizi anziani. Abbiamo distrutto la nostra roba e abbiamo vinto. Non eravamo bravi musicisti, quindi la cosa mi ha fatto capire che la musica ha a che fare con l’atteggiamento più che con l’abilità tecnica”.
Per chiunque viva fuori dalla città natale della band, Teignmouth, ci sarebbero voluti altri cinque anni prima che Muse iniziasse a significare una rock band piuttosto che un concetto della mitologia Greca. Fino a quel momento, la fede del fan medio di musica britannica era stata duramente messa alla prova. Era il 1999, e con Travis che sistemava i conti col Britpop e gli USA che offrivano una sconfortante alternativa nel rap-metal misogino dei Limp Bizkit, il millennio sia stava configurando come tempo di magra per gli eroi della chitarra. Niente eleganza, stravaganza irrilevante, una cronica mancanza di pennacchi e nessuna luce alla fine del tunnel. L’apocalisse sarebbe stata preferibile.
Sullo sfondo, Showbiz, l’album di debutto dei Muse, sembrava concepito per farci cadere di mano il nostro Discman. Non era un album, era un’opera, e il suo cuore era un novellino delle sei corde che poteva essere grandiosamente definito senza tema di esagerazione un Eddi Van Halen incrociato con Hendrix sugli anelli di Saturno. Dal frenetico assolo di tremolo di Sunbrun, attraverso i doublestops ipnotici di ispirazione greca di Muscle Museum fino allo spettrale picking neoclassico di Unintended, questo axeman non si conformava alle regole della musica né all’umore dei tempi. Persino la sua voce era fuori scala, come un cantante d’opera Glyndebourne che piange la fine del mondo. Ad una sola voce, la nazione si chiese: chi diavolo è questo Matt Bellamy?
Non ci volle molto perché lo scoprissimo. Quando Bellamy uscì allo scoperto sulla stampa musicale era strano esattamente quanto avevamo sperato. Avevamo una magra gruccia per cappotti di uomo, che ci guardava torvo da sotto una pettinatura a nido d’uccello che cambiava colore con la frequenza di un semaforo e che irradiava una tale intensità che più tardi lo vide incoronato da Cosmpolitan l’uomo più sexy del rock. E Bellamy non sembrava preoccuparsi dell’attenzione femminile: “Qualche anno fa di certo non avevamo ragazze vestite in PVC che si facevano vive ai concerti dicendo che avrebbero fatto qualsiasi cosa per noi…”.
Presto venne fuori che le opinioni di Bellamy erano infuocate quanto la sua tecnica. Coperture governative, tavole Ouija, il pericolo di dare vita ad un alieno, teorie cospiratorie interstellari…tutto era un bersaglio legittimo una volta che i Dittafoni iniziarono a girare. “Pensano davvero che crediamo che un uomo in una grotta in Afghanistan ha orchestrato il più incredibile attacco di tutti i tempi agli Stati Uniti?” Bellamy rifletteva circa gli attacchi dell’11/9. “Credo che l’America aveva bisogno di una nuova Pearl Harbour per invadere l’Iraq”.
Ma era sul palco che Bellamy davvero prendeva vita. Ostinatamente silenzioso sul palco tra una canzone e l’altra a causa della sua paura patologica di scherzare col pubblico, il pizzicare una singola, apocalittica corda trasformava il maldestro ventunenne in un derviscio rotante di capelli e dita che strangolava la sua chitarra con una ferocia che l’ha visto spaccarsi da solo un labbro durante uno show, e che si produceva in assoli dietro la schiena con una destrezza da consumato showman che non vedevamo dai tempi in cui Hendrix suonava coi denti o le dita di Van Halen picchiettavano con ambo le mani il manico della sua chitarra. “Quando ero più giovane” ragionava Bellamy, “era più un modo di suonare del tipo perdere il controllo e improvvisare – con un sacco di errori – che mi aveva spinto verso la musica. Non mi interessavo di musica classica. Mi prendevano il grunge e Jimi Hendrix”.
Il testimone era stato passato. Ma le similitudini non finiscono qua. Esattamente come Hendrix aveva diviso l’opinione pubblica quando era esploso a Londra nel 1966 o quando Van Halen shoccò il pubblico per la prima volta con i suoi tempestosi divebombing, così i Muse catalizzarono l’attenzione della nazione come un editoriale del Daily Mail. Insieme alla proclamazione di genio, vennero fatti sogghignanti riferimenti all’istrionismo sul palco di Bellamy, con particolare velenosità riservata alle sue grida insoddisfatte (percepite come mutuate da Thom Yorke dei Radiohead). Forse avevano in parte ragione. Una volta che la polvere spaziale si fu posata e le vendite mondiali si attestarono a 200 000 copie vendute, anche il fan più ardente della band era d’accordo che Showbiz era uno splendido debutto, ma non commisurato al talento di Bellamy. Quello di cui i Muse avevano bisogno era una hit supermassiccia con cui buttare giù i dubbiosi.

Nel Marzo 2001, Plug In Baby cambiò tutto. Fu rilasciata per dare la carica al secondo album Origin of Simmetry, e anche se i credits ci dicevano che era un essere umano a suonare la chitarra, le nostre orecchie potevano a malapena comprendere la triade neoclassica che apriva la track. In termini di ubiquità, Plug in Baby era la Johnny Be Good del nuovo millennio, mentre il piazzamento all’11 posto delle chart UK rappresentò lo sfondamento commerciale dei Muse.
Il capitale di Bellamy era in crescita ed esplose con Origin of Simmetry. Fu il disco che sviluppò ciò che Showbiz aveva suggerito, distillando influenze differenti come la fisica quantistica e i pianisti del periodo romantico, e poi vomitandole su masterclass che oscillavano tra lo stridore gocciato di New Born e le settime vitree corde di Hyper Music. Origin of Simmetry era dark, pesante e pieno di inventiva senza fine, una sintesi esplosiva di uomo e macchina. È senza dubbio ancora il loro miglior album.
Le venue divennero più grandi e le performance di Bellamy crebbero per riempirle. È una sfida alla logica che un chitarrista con otto dita possa produrre le minacciose lastre di distorsione, il gorgogliante space-rock e le piste neoclassiche che si scontravano come metoeriti ogni volta che la band saliva sul palco. Ma Bellamy aveva un’arma segreta. Al posto di modelli Ibanez che aveva usato nei primi anni c’era una collezione di chitarre elettriche customizzate, costruite a mano dal liutaio britannico Hugh Manson e che avevano effetti incorporati, incluso un sustainer circuit e un hand-operated wah.
“Tutte le mie chitarre Manson sono influenzate dalla Fender Stratocaster” spiegava Bellamy, “ ma coi i pickup e il suono di una Les Paul. Hanno tutte gli stessi pickup: un Kent Armstrong Motherbucker aul ponte e un P90 sul manico. Avere degli effetti incorporati è davvero comodo se ti muovi parecchio sul palco, specie se stai anche cantando”.
Qualcuno meno innovatore si sarebbe forse sintonizzato su Origino of Simmetry come sound caratteristico, ma quel che Bellamy ci diede dopo era qualcosa di completamente diverso. Quando il terzo album Absolution uscì nel Settembre 2003, rappresentò una dichiarazione dei Muse ancora più audace, semplicemente descritta dal suo autore come “fottutamente grasso”.
Proprio mentre cercavamo di definirlo, Bellamy era sfuggito alla rete ancora una volta. In Stockholm Sindrome e nel tuoneggiante primo singolo Time is Running Out, aggredì i ganci del radio-friendly. Con Blackout creò la ballata più nera dell’anno. Accanto al suo eroico lavoro d’intaglio, Bellamy aveva modificato anche il suo approccio alla produzione, con il chitarrista che registra molte delle sue parti in un solo campo per ottenere la giusta vibrazione e dividere le corde in modo da registrarle una ad una.
“In passato, ero solito sovrappore diverse tracce di chitarra” rivelò. “Questa volta volevo che spiccasse una sola parte di chitarra e fosse proprio perfetta. Sono stato influenzato un po’ dai System od a Down, soprattutto in canzoni tipo Stockholm Sindrome. Mi sono buttato in questo genere di riffaggio veloce tipo metal, che è qualcosa che non avevo mai fatto prima”.
Absolution vendette più di 2.8 milioni di copie nel mondo, e mentre altre band inglesi come i Coldplay hanno fatto meglio, nessuno poteva vantare un chitarrista così ispirato come Bellamy: fu il suo lavoro d’intaglio a guadagnare alla band il primo headliner al Glastonbury nell’estate del 2004; i suoi riff che monopolizzarono il sondaggio dei lettori di Total Guitar nel giugno di quell’anno; e il suo instancabile lavoro di scrittura che permise alla band di ottenere due date all’Earls Court questo Dicembre. Era difficile immaginare come i Muse potessero superarsi.
Per un momento nel 2005, sembrò che non potessero, mentre la loro sessione di registrazione per il quarto album languiva in Francia e Bellamy confessava “abbiamo perso la testa” mentre si dilettavano in jazz classico. Ma Bellamy non conosce siccità creative. Dall’inizio del 2006, il chitarrista aveva riscoperto la sua musa in una strana location. Un viaggio a New York lo vide distillare i groove della vita nottura di Mahattan nel singolo di partenza di Black Holew & Revelations. “Andavo a ballare nei club introno a New York” disse in un’intervista, “ e questo mi ha aiutato a creare tracce come Supermassive Black Hole, con questo beat dance mescolato a chitarre alternative”.
Supermassive Black Hole è stato uno standout in un album che rappresenta la miglior dichiarazione di Bellamy. Mentre i suoi precedenti tentativi avevano distanziato il chitarrista dai suoi simili, Black Holes & Reveation li ha lasciati ad annaspare nella scia: surclassati, fuori moda e incapaci di suonare come lui. Dagli eteri scampanellii di Starlight alla follia e all’affilato riff di Knights of Cydonia, non ascoltavamo un album così sperimentale da quando Hendrix ha rilasciato Elecrtic Ladyland o Van Halen Van Halen. Richiedeva il più grande palco sulla terra…

E tutto questo ci riporta al delirio sudato del Wembley Stadium, all’urlo della folla e alla consapevolezza che la distante figura che vomita assordanti riff è il più importante chitarrista al momento. La cosa più eccitante è che nessuno qui sa dove Matt Bellamy porterà la chitarra la prossima volta – neppure lui. “Dobbiamo sempre spingere più in là i limiti di ciò che facciamo” ha detto con un sorriso prima del concerto. “Questa band può facilmente estendersi verso l’infinito…”.

Ok, ho scritto troppo e metterci pure le canzoni è troppo, pazienza, ho un mese per postarle :P

3 commenti:

Cannibal Kid ha detto...

ma come?
undisclosed desires è uno dei pezzi che preferisco del disco :D

Anonimo ha detto...

Avevi ragione, l'articolo è veramente stupendo! Non che il resto del tuo post non lo sia =P
Per me è ancora presto parlare così di emozioni, ma tra qualche giorno mi rifaccio viva!!

...NON CONOSCE SICCITA' CREATIVA...è normale che a pensarci io sia caduta in ginocchio con la fronte a terra?! Celebriamo il genio *.*
So già che il concerto mi spaccherà il cuore!

Un bacio, Principessa =*

Lennie MissSparkle ha detto...

@ Marco: eh, non sei l'unico... io continuo a odiarla con intensità, ma molti lo considerano il pezzo migliore del disco. Che dire, ho chiarito più volte che io di musica non capisco una mazza :P

@ Vale: credo che tu ora possa parlare largamente di emozioni, no? :)